lunedì 28 luglio 2025

Ahperò!

 

Stipendi da fame e arretrati: l’attacco al lavoro non è finito
DI PIERGIOVANNI ALLEVA
Non se ne sono accorti in molti, perché vi è stata una sorta di congiura del silenzio della grande stampa e della televisione, ma nei giorni scorsi i diritti dei lavoratori italiani hanno corso un pericolo gravissimo. Quello di non poter più rivendicare una retribuzione adegeuata, come garantisce l’art. 36 della Costituzione, e di non poter più far valere diritti economici o di altra natura, arretrati e negati dal datore di lavoro, senza rischiare rappresaglie, a cominciare dalla perdita del posto di lavoro. Questo gravissimo pericolo era il portato di un emendamento legislativo, a doppio contenuto, introdotto di soppiatto da Fratelli d’Italia, in persona del senatore Pogliese (ma con l’appoggio di tutto il centrodestra) nella legge di conversione del dl Ilva, cioè di una legge riguardante tutt’altro argomento. Una modifica micidiale, e che è stata evitata da una insurrezione dei sindacati e dei partiti progressisti, ma che non è ancora scongiurata: Pogliese, nel ritirare l’emendamento – formalmente per motivi tecnici – ne ha annunziato la prossima ripresentazione. E poiché il pericolo è incombente, conviene spiegare quali fossero i contenuti. Si tratta di due maxi-modifiche davvero centrali.
La prima riguarda la garanzia per il lavoratore di poter reclamare i suoi diritti, retributivi o di altra natura, anche durante il rapporto di lavoro senza tema di rappresaglie, aperte o mascherate. La regola vigente sin dagli anni 70 era tanto semplice quanto efficace: se il lavoratore non è tutelato dal diritto alla reintegra in caso di licenziamento ingiustificato, i suoi diritti non si prescrivono in corso di rapporto, sicché egli può rivendicarli dopo la sua fine anche se risalenti a molti anni prima. Il che, una volta, accadeva per i lavoratori addetti alle imprese con meno di 16 dipendenti, perché, nelle imprese di maggiori dimensioni, vi era, appunto, la regola (dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori) di reintegra nel posto in caso di licenziamento illegittimo, e si comprendeva, quindi, che le pretese potessero essere avanzate nell’ordinario termine prescrizionale di cinque anni. Poi, però, l’aggressione neo-liberista ai diritti dei lavoratori (con la legge Fornero e il Jobs Act) ha “semi demolito” l’art. 18, ancora vigente, per quel che ne è rimasto, solo per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, mentre per gli altri (che saranno maggioranza) la reintegra è un caso eccezionale.
Di questa mutata situazione ha preso atto, da anni, la giurisprudenza della Cassazione, la quale ha stabilito che, poiché anche nelle imprese con più di 15 dipendenti la reintegra non è più prevista, anche per i lavoratori di quelle imprese deve valere la regola della sospensione della prescrizione delle pretese in corso di rapporto. Ed esattamente contro questa giustissima regola giurisprudenziale è diretto l’emendamento Pogliese: prevede che, nelle imprese con più di 15 dipendenti, la prescrizione dei diritti decorra anche in costanza del rapporto di lavoro, anche se la reintegra si applica solo a casi limitati. Ma non è tutto, addirittura quel testo costruisce una vera e propria “trappola” per i lavoratori che debbano rivendicare diritti: oltre a doverlo fare con lettera di messa in mora entro i cinque anni della nascita del diritto, devono poi agire in giudizio nei successivi 180 giorni, così da “mettere la testa sotto la mannaia”, visto che oggi il diritto alla reintegra non è più garantito. Ed a tale garanzia occorre tornare, come è stato fatto per i dipendenti pubblici che godono di una perfetta garanzia di reintegra. La parità di diritti tra lavoratori pubblici e privati è stata una delle pagine più belle della legislazione degli anni 90.
La seconda modifica non è meno grave, è un attacco alla Costituzione, e al suo art.36, e alla giurisprudenza della Cassazione, che ha fissato un principio di grande civiltà: che la garanzia costituzionale della retribuzione adeguata è sufficiente e superiore a qualsiasi altra fonte sia di legge ordinaria che di contrattazione collettiva, anche se sottoscritta da sindacati comparativamente più rappresentativi. Quest’ultima può valere da “indicatore sociale” cui il giudice si ispira, tenendo conto di altri fattori economico- sociali e, in primo luogo, di ritardi e “debolezza” della contrattazione stessa nei confronti dell’inflazione e dell’impoverimento progressivo.
Dunque, il giudice può valutare l’adeguatezza dei minimi della contrattazione alla luce dell’art. 36 della Carta e non solo intervenire ai sensi di tale norma, come vorrebbe l’emendamento Pogliese, quando esista “grave inadeguatezza” degli standard retributivi e senza possibilità – si noti – di liquidare arretrati. È un tentativo davvero goffo di “mettere le mutande” all’articolo 36, di dubbia costituzionalità, e che conferma l’astio di questa destra verso la Carta nata nella Resistenza. Occorre la massima vigilanza: sono davvero in gioco libertà e garanzie costituzionali di prima grandezza.

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