Quando il cervello non è acceso
di MICHELE SERRA
Putin ha dieci-dodici giorni per fermare la guerra», dice Trump (è necessario ricordarlo: è il presidente degli Stati Uniti). Uno legge, verifica che il virgolettato è fedele («dieci-dodici giorni», ha detto proprio così) e si domanda: ma perché non tredici-quindici, o sette-nove? Su quali dati, quali informazioni, quali valutazioni oggettive si appoggia, l’uomo più potente del mondo, per dire che i giorni a disposizione di Putin per «fermare la guerra» sono proprio dieci-dodici, non di più, non di meno?
Torna in mente una delle sue prime esternazioni da neo-eletto, «fermerò la guerra in Ucraina in 24 ore». E si torna non all’ipotesi, ma proprio alla certezza, che costui apra bocca a vanvera, a casaccio, a capocchia, tanto per dire, senza pensarci, senza farsi carico della responsabilità di quello che dice, forse addirittura senza capire, lui per primo, quello che sta dicendo.
In piena effrazione del buon principio, appeso in tanti uffici, tanti luoghi di lavoro, “prima di aprire la bocca controllare che il cervello sia acceso”. E la cosa più triste — che ci tira in ballo tutti quanti, uno per uno — è che noi siamo costretti a dedicare a questo blaterone inattendibile, sprovvisto di alcuna autorevolezza, di alcun carisma, di alcuna dignità al di fuori delle sue bombe atomiche, l’attenzione che non merita.
Trump è la nemesi della democrazia, la sua eutanasia. È il trionfo (legittimo) del peggiore, del meno serio, del meno morale, del meno rispettabile e del meno rispettoso, del più bugiardo, del meno riflessivo. Viene da dire: ce lo meritiamo, ma non è vero. Non ce lo meritiamo. Siamo costretti a subirlo per volontà altrui, ed è tutt’altra cosa.
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