sabato 3 agosto 2024

Nella vergogna

 

Quei camerati schiavi del passato
DI MASSIMO GIANNINI
Il modo penoso e peloso con cui Giorgia Meloni ha deciso di infangare il quarantaquattresimo anniversario della strage di Bologna segna un punto di rottura civile e democratica.
L’Italia non merita questo oltraggio alla sua Storia. Quelle 85 vittime innocenti non meritano questa offesa alla Memoria.
In un Paese normale, dalla presidente del Consiglio di un partito altrettanto normale ci si dovrebbe aspettare che il ricordo di quell’immane tragedia serva a saldare una volta per tutte i conti con quel suo maledetto “passato che non passa”. A sanare per sempre tutte le ferite che il terrorismo neofascista ha inferto alla carne viva della Repubblica.
A riconoscere quell’orrore e quel sangue sfogliando proprio le pagine più oscure dell’album di famiglia della vecchia destra tricolore dalla quale proviene anche lei. A consentire finalmente alla “Nazione” di uscire dall’incubo degli Anni di Piombo.
Purtroppo l’Italia di oggi non è un Paese normale, e meno che mai lo sono Meloni e i suoi Fratelli.
Le parole usate dalla premier per replicare alle critiche più che legittime di Paolo Bolognesi sono vergognose. Definire «ingiustificati» i sacrosanti attacchi alle sue tesi negazioniste sull’origine di quel mostruoso attentato è una palese mistificazione dei fatti. Evocare il pericolo di gesti «di odio» che potrebbero mettere a repentaglio la sua «incolumità personale» è una subdola istigazione a compierli. Tutto questo conferma una volta di più che in questa sedicente destra “di governo” — oltre ad ardere l’eterna fiamma mussoliniana — batte un “cuore nero” post-missino, che la rende irriformabile e incompatibile con la Costituzione Repubblicana.
Ci vogliono cinismo e ipocrisia, per imputare l’eccidio del 2 agosto 1980 a un «terrorismo che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste».
Una formula anodina che — senza dirlo in modo esplicito — serve alla Sorella d’Italia per compiere la solita impostura: prendere le distanze da una verità giudiziaria, che secondo lei e i suoi “volonterosi carnefici” non coincide con quella storica. E non per caso, alla fine del suo comunicato, rilancia la formula di rito che ripete ogni anno: siamo sempre in attesa di «arrivare alla verità sulle stragi che hanno insanguinato la Nazione».
Un insulto al ricordo di quei morti. Le piaccia o no, a quella verità ci siamo già arrivati da un pezzo. Le sentenze sono state almeno quindici, quasi tutte passate in giudicato. Non riflettono pareri né opinioni, ma il verdetto definitivo di Tribunali, Corti d’Appello, Corti di Cassazione, che “in nome del popolo italiano” hanno ritenuto colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio tre terroristi dei Nar, Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Luigi Ciavardini, col supporto di due esponenti dell’eversione nera, Paolo Bellini e Gilberto Cavallini.
Non c’è nient’altro da sapere. C’è solo da prendere atto.
Ma questo la premier non lo fa e non vuole farlo. E questa è chiaramente “la linea del partito”: anche Ignazio La Russa — confermando che con lui se si scommette sul peggio si vince sempre — ricorre alla stessa ambiguità meloniana: «Vile attentato che le sentenze hanno attribuito a una matrice neofascista». Più in fondo all’abisso riesce ad arrivare solo Salvini, che anchequest’anno cinguetta su X il suo immenso dolore per quella «ferita ancora aperta», senza mai dire chi l’ha procurata.
Neanche a Palazzo Chigi Meloni riesce a guarire dalla sindrome vittimistica dell’Underdog della Garbatella che denunciò nel suo discorso di investitura. Neanche da donna sola al comando riesce a liberarsi da quella vocazione settaria e minoritaria da agit-prop di Colle Oppio, che la rende capace di parlare sempre alla sua ridotta elettorale e mai all’intera comunità nazionale.
È da anni che Meloni e i suoi «splendidi ragazzi» — in ossequio a un teorema inventato dall’ala più eversiva dell’Msi — avvelenano i pozzi sulla mattanza neo-fascista di Bologna. Cossiga dà inopinatamente il “la”, in un’audizione del marzo 1991, quando a domanda del missino Pinuccio Tatarella risponde: «La targa alla stazione di Bologna, che definisce “fascista” la strage, va tolta…». La gioventù neofascista si infila subito nella crepa bugiarda aperta dal Grande Picconatore. E sposa la fantomatica “pista palestinese”: la bomba alla stazione nascerebbe dalla violazione del presunto “lodo Moro”, un accordo che i servizi segreti avrebbero sottoscritto con l’Olp per sventare attentati. Una bufala, archiviata presto dalla Procura. Ma da quel momento, la “pista palestinese” diventa la foglia di fico dell’estremismo nero.
Nell’agosto del 1994 Bellini e Ciavardini la rilanciano, organizzando il primo Comitato Trasversale “E se fossero innocenti”, per insinuare dubbi sulla colpevolezza di Mambro e Fioravanti. Il 2 agosto 2000, nel 40esimo della strage, i giovani militanti confluiti in Alleanza Nazionale la fanno aleggiare in piazza, sempre con Ciavardini, al grido “Nessuno di noi era a Bologna”.
Nel 2004, in un evento di Azione Giovani a Catania in cui si parla della strage, al fianco di Ciavardini compare Giorgia in persona, che in un volantino dichiara testualmente: “Vogliamo che sia fatta chiarezza sulle stragi, da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna… vogliamo la verità sulle pagine strappate della nostra storia, che qualcuno non ha il coraggio di riportare alla luce”. Nel 2005, con una fiaccolata nella Capitale, la “pista palestinese” è cavallo di battaglia del Comitato “L’ora della verità”, in cui confluiscono ex di Avanguardia Nazionale. Negli anni successivi, partorita dalle ceneri di An la sua nuova creatura FdI, Meloni intensifica lacampagna di disinformazione sulla strage. 2 agosto 2017: «37 anni senza giustizia e senza verità». 2 agosto 2018: «Tutto è avvolto nel mistero, nessuna verità, nessuna giustizia». 2 agosto 2019: «C’è necessità e urgenza della desecretazione dei documenti sulla strage di Bologna e sul Lodo Moro». 15 ottobre 2019 (col processo a Cavallini in corso): «Attendiamo risposte urgenti… su un intrigo dai risvolti internazionali che qualcuno si ostina a considerare una vicenda di terrorismo interno». 2 agosto 2021: «Tra ombre e depistaggi, continuiamo a chiedere verità e giustizia».
La macchina della menzogna non si ferma nemmeno quando Meloni diventa presidente del Consiglio. Sostiene con forza le proposte di legge presentate dai suoi bracci armati Foti, Rampelli e Mollicone, che chiedono una Commissione parlamentare d’inchiesta «sulle connessioni tra il terrorismo internazionale e le stragi» di Piazza Fontana e di Bologna. Non va mai nella città devastata da quel lutto incancellabile. In compenso, nel comunicato del 2 agosto 2023 si riperde la «matrice» e parla solo di un generico «terrorismo», aggiungendo che «il governo accelera sul versamento degli atti declassificati sulla strage». Accreditando ancora una volta l’ipotesi che arcana imperii e segreti irriferibili impediscono di accertare le vere responsabilità di quell’immonda macelleria umana. Come se, nel frattempo, i cinque terroristi neofascisti non fossero stati condannati a una dozzina di ergastoli.
Si arriva così allo scempio di ieri, che è insieme etico e politico, morale e istituzionale. Se non ci fosse da piangere, verrebbe quasi da ridere di fronte all’indignazione meloniana per le accuse di Bolognesi.
Di fronte a un uso così fraudolento della realtà, denunciare la sprezzante doppiezza della premier non è «mancanza di rispetto»: è un solo un doveroso disvelamento. «Per la destra italiana la strage di Bologna è una macchia da negare e da cancellare a tutti i costi» non è una «frase molto grave»: è solo una frase molto giusta. È logico che faccia infuriare gli eredi di Mussolini e i nipotini di Almirante. Insieme al cuore nero della “destra reale”, queste semplici ma atroci evidenze mettono a nudo il cuore di tenebra della leader che la guida.

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