Che originali Letta, Calenda e Renzi: l’unica “strategia” è puntare al centro
di Alessandro Robecchi
Bevete molta acqua, mangiate la frutta e si vince al centro. L’antica saggezza ci colpisce ogni minuto, è una specie di ritornello che echeggia ovunque, un’esortazione, quasi un ordine. È un po’ come lo sport, o il sesso, che più se ne parla e meno se ne fa: se il famoso centro avesse un voto ogni volta che sui giornali si legge “si vince al centro”, avrebbe il 110 per cento. Diciamolo: è un argomento in cui sarebbe ora di mettere un po’ d’ordine, perché ormai sappiamo che una iattura del Paese (una delle) è l’affollamento di volenterosi costruttori di centri, che nelle intenzioni dovrebbero essere più centrali dei centri esistenti, che già sono parecchi. Gli ultimi boatos riguardano un ipotetico centro dal fantasioso nome “L’Italia c’è” (Matteo, sei tu?), che dovrebbe contenere i soliti noti e meno noti, cioè Calenda Carlo e la pattuglia di Più Europa (e alé, una cabina del telefono l’abbiamo riempita), con la leadership affidata al sindaco di Milano Beppe Sala.
L’altro grande costruttore di centri, Renzi Matteo, si sbraccia per un centro più tecnocratico ed elitario che lui chiama “Area Draghi”, cioè tutti quelli che ci sono nel governo Draghi tranne quelli che stanno nel governo Draghi ma non piacciono a lui, e che forse interpreta come l’unica maniera per avere un seggio da qualche parte. Poi c’è un ancora più grande centro, detto Campo largo, ambizione di Letta Enrico, che vorrebbe in qualche modo federare intorno al Pd – grande forza di centro – tutti gli altri fabbri e carpentieri dei centri in costruzione, più forse qualcuno che sta più a sinistra, ma che poi, tranquilli, quando si vota in Parlamento (che so, per le armi) vota come il centro.
Per lisergico paradosso, la formula “si vince al centro” ha avuto sulla stampa italiana una discreta impennata proprio mentre in Francia il centro macroniano prendeva una sberla solenne, anzi due: una da destra e una da sinistra, e se si hanno sotto gli occhi i risultati francesi, la frase “Si vince al centro” sembra un commento sarcastico-perculante. Coerentemente, tutto il centro possibile e immaginabile italiano, non ha quasi commentato le elezioni francesi e tutti i titoli sono per Le Pen trionfante e per il Napoleone centrista acciaccato. Se si parla di una sinistra unita e plurale, che ha ottenuto un risultato storico, e che è la prima forza d’opposizione in Francia, si scartabella nel tradizionale armamentario dialettico centrista: Mélenchon e i suoi sono populisti, anti-sistema, il Chavez francese, estremisti, anti-atlantici e aggiungere insulti a piacere.
Naturalmente non dovete pensare al centro come a un puntino statico, ma a una sostanza collosa che si muove nel tempo e nello spazio. Oggi in Italia le disavventure del marketing fanno in modo che ci sia una certa confusione: la più grande e magmatica forza di centro, il famoso Campo largo, si ostina a dirsi “sinistra”, che è un po’ come quelle fighettissime botteghe milanesi che vendono aperitivi a venti euro ma mantengono l’antica insegna novecentesca: fabbro, o lavanderia. E poi c’è pure la questione geografica, perché membri illustri del famoso centrissimo twittano sentite felicitazioni alla sinistra che vince in Colombia (la Colombia è lontana), ma zero commenti sulla sinistra francese resuscitata (anzi è una bella seccatura). Resta l’impareggiabile spettacolo di arte varia di tutti quegli omini, operosi e intervistati ogni giorno, che si affannano a costruire centro in un posto dove, se ti guardi in giro, non c’è altro che centro.
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