I 5 referendum. Nelle priorità italiane stavano dopo il prezzo delle capesante
di Alessandro Robecchi
Dopo la pizza e la pastasciutta, si conferma grande tradizione italiana il dibattito sui referendum, specie dopo il fatale mancamento di quorum. Insomma, quasi ogni volta che si viene chiamati a votare Sì o No, vincono quelli che non vanno a votare né Sì né No, che è il modo migliore per votare No, come si è visto anche l’altro giorno (fanno eccezione i referendum costituzionali, dove invece la gente va volentieri a votare No, e poi festeggia, ottimo). Ed ecco: dalle maggiori testate italiane all’ultimo giornaletto di provincia fioriscono gli spiegoni per dire che l’istituto referendario ha perso il suo potere, che va riformato, che non è più come una volta, il divorzio, l’aborto, quanto ci manca Marco Pannella, eccetera eccetera. È come se davanti a un fuciliere che sbaglia mira di qualche decina di metri si riflettesse argutamente sulla riforma del fucile. Le proposte su come cambiare l’istituto del referendum si somigliano un po’ tutte e dicono sostanzialmente due cose: alzare il numero delle firme necessarie per chiederlo e abbassare il quorum per vincerlo, che è un po’ come dire al fuciliere di cui sopra: “Senti, amico, col fucile sei negato, prova con questo cannone, vedrai che ci riesci”.
I cinque referendum defunti domenica scorsa, il cui esito era largamente prevedibile e previsto – tanto che anche i sostenitori (Lega e Renzi in primo luogo) hanno quasi fatto finta che li avesse proposti un lontano cugino, per fingere di non prendere l’ennesima facciata – sono un caso di scuola. Chiedere al famoso popolo di esprimersi, che so, sulla composizione dei Consigli giudiziari, sembra un po’ azzardato. Ammesso che sappiano cosa sono, risulta che la composizione dei Consigli giudiziari, nelle priorità degli italiani, stia al milletrecentonovantaseiesimo posto, molto dopo il prezzo delle capesante gratinate e appena prima del sesso degli angeli (che sarebbe più interessante, tra l’altro). Dunque, cos’è che provoca negli elettori questa fuga dal prezioso istituto del referendum? Facciamo qualche ipotesi.
La prima è che viene da ridere. A chiedere di abolire la legge Severino, per dirne una, sono stati tre leader sotto processo (Salvini, Renzi, Berlusconi). Cioè: tre leader che temono una condanna, tentano di abolire la legge che gli impedirebbe di sedere in Parlamento in caso di condanna, non fa una piega. Poi, c’è il fatto che due referendum che sarebbero stati molto popolari (la liberalizzazione della cannabis e il diritto a una morte decente), che nascevano da varie mobilitazioni e raccolta di milioni di firme, sono stati bocciati con bislacchi cavilli, mentre i referendum proposti da cinque consigli regionali (cioè dalla classe politica) sono stati ammessi, una cosa piuttosto irritante. Ci metterei anche – sono andato a scartabellare – che sul declino dello strumento del referendum abrogativo si parlò a lungo nel 1996 (26 anni fa) e anche nel 1999 (23 anni fa), quando i Radicali di Pannella (allora impegnato in una lista Sgarbi-Pannella, ahahah) li proponevano a mazzetti di dieci o venti, come gli asparagi. In più, alcuni referendum che raggiunsero il quorum e dove vinsero i Sì, sono spariti nel cyberspazio (acqua pubblica, 2011, o privatizzazione della Rai, 1995). Dovrebbe bastare, forse, per dire che il limite del referendum non sta nelle firme necessarie, e nemmeno nel quorum, ma nell’uso belluino che se ne fa, e comunque alla fine si dà la colpa al famoso popolo che – cretino – non capisce. Mentre invece, si è visto domenica, capisce benissimo.
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