Il nemico pubblico n.1
di Marco Travaglio
Le telefonate e i messaggini del premier Draghi a Grillo per istigarlo a far fuori Conte da leader dei 5Stelle in barba ai due plebisciti fra gli iscritti, rivelati da Grillo a De Masi, a Conte e ad alcuni deputati, svelano la natura intrinsecamente e doppiamente golpista dell’operazione che nel febbraio 2021 ci regalò questo governo. Intrinsecamente perché quel golpe bianco postmoderno, senza violenza fisica né carri armati, servì a sovvertire l’esito delle elezioni, a neutralizzarne i vincitori e a riportarne al potere gli sconfitti. Doppiamente perché, fin dalla scelta dei ministri, Draghi e chi gli sta dietro e accanto avviarono un’opera di ingegneria politica nei quattro grandi partiti della maggioranza, per snaturarli e riplasmarli a immagine e somiglianza del premier. I capicorrente del Pd, dopo una feroce guerra per i ministeri, indussero alle dimissioni il segretario Zingaretti, che fino all’ultimo aveva difeso il Conte-2, e lo sostituirono col superallineato Enrico Letta. Nella Lega, il segretario Salvini non toccò palla e dovette digerire tre ministri fedeli al superallineato Giorgetti. Lo stesso accadde in FI, col padrone B. scavalcato dal superallineato Gianni Letta, che piazzò i suoi pupilli Brunetta, Gelmini e Carfagna. L’apoteosi si registrò con i 5Stelle, prime vittime dell’operazione: Draghi se li mise in tasca chiamando direttamente Grillo, plagiandolo con blandizie e supercazzole (il “Superministero della Transizione Ecologica”, per giunta in mano ad Attila Cingolani) e bypassando non solo il capo pro tempore Crimi, ma anche i big, Di Maio in cima, determinati ad affossare l’ex banchiere e far rinviare il Conte-2 alle Camere (dopo la minaccia di Mattarella di scioglierle, qualche ex Pd ed ex 5S congelato in attesa del Messia di Città della Pieve sarebbe tornato all’ovile).
Di Maio assunse subito la forma della poltrona e divenne con Giorgetti, Brunetta&C. il guardaspalle del premier. Ma Conte, dopo un paio di giravolte di Grillo, fu eletto capo del M5S e Giggino ’a Poltrona non bastò più a tenere a cuccia la forza di maggioranza relativa. Draghi, ogni volta che stracciava una riforma-bandiera grillina, chiamava Grillo per aggirare Conte e convincere ministri e parlamentari a obbedir tacendo. Il giochino funzionò finché si mise in testa il Quirinale: Conte, Salvini e Meloni gli sbarrarono la strada, malgrado i traffici di Di Maio, Guerini, Giorgetti&C.,che alla fine dovettero accontentarsi di impallinare la Belloni per non darla tutta vinta ai leader M5S, Lega e FdI. Quando poi Conte sventò anche il Conticidio delle carte bollate al Tribunale di Napoli e fu confermato leader dal 95% degli iscritti votanti, era scoppiata la guerra in Ucraina.
E il famigerato Giuseppi si mise di traverso sul bellicismo filo-Nato, l’aumento della spesa militare al 2% e l’aggiramento del Parlamento sulle armi in Ucraina. Così suscitò speranze sia negli italiani pacifisti (la maggioranza) sia in quelli impoveriti dalle auto-sanzioni occidentali. E trovò sintonia col pacifismo di Grillo. Senza più mani libere per il suo oltranzismo filo-Nato, Draghi doveva rendere superflui i 5Stelle. Così partì la scissione di Di Maio&C., che solo un marziano o un idiota può immaginare improvvisata in due giorni all’insaputa di Draghi: il sorrisetto con cui Giggino ’a Poltrona sottolineava che il M5S non è più la prima forza parlamentare era rivolto al premier: l’utilizzatore finale del suo partitucolo. Restava un problema: con l’esito disastroso – sul piano militare per l’Ucraina e sul piano economico per l’Ue – della cobelligeranza occidentale, aumentano gli italiani che vogliono il negoziato anziché il riarmo infinito (le liste di proscrizione dei “putiniani”, malgrado l’impegno di 007, Copasir, Pd e giornaloni, sono boomerang). E sia Conte sia Salvini rischiano di giovarsene, soprattutto se escono dalla maggioranza, o almeno dal governo. L’uscita dell’uno potrebbe innescare quella dell’altro. Di Maio&C. non bastano più. Bisogna rovesciare anzitutto Conte, facendo leva sulle ruggini di Grillo perché cacci il leader che Draghi ritiene “inadeguato” e Di Maio “non allineato” per lo stesso motivo per cui iscritti ed elettori rimasti lo stimano: non obbedisce alle lobby. Poi toccherà a Salvini, che sta a Giorgetti come Conte sta a Di Maio.
Se la manovra andrà in porto, tutti i partiti della maggioranza saranno allineati e adeguati: tutti uguali, cioè draghiani. E anche lo spauracchio Meloni sarà sventato. Alle elezioni vedremo la sceneggiata del Centrodestra contro il Campo Largo e il Grande (si fa per dire) Centro, col nuovo record di astenuti. Poi il giorno dopo, comunque abbiano votato gl’italiani, tornerà Draghi o un altro commissario paracadutato dall’alto e da fuori (il solito Cottarelli, o magari un bel generale). E la Meloni sceglierà fra la resa e altri cinque anni di opposizione di Sua Maestà. Un altro golpe bianco. Perciò ieri, dopo le rivelazioni di De Masi al Fatto sulle gravissime interferenze di Draghi nella seconda forza del suo governo, non avrebbero dovuto insorgere solo Conte e il M5S, ma i leader di tutti i partiti (in primis le prossime vittime designate), il capo dello Stato, i presidenti delle Camere, gli intellettuali, i giornalisti e i giuristi che si dicono democratici: cioè quelli che avrebbero protestato se le stesse cose le avesse fatte un altro premier. Invece, silenzio di tomba. Il clima ideale per abolire, dopo il Parlamento, anche le elezioni.
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