sabato 9 maggio 2020

Meditazione


Il virus e l’altro pianeta

di Bernard-Henri Lévy

Notizie cadute nel dimenticatoio della follia legata al coronavirus. Rivolta di precari in un quartiere disagiato di Tláhuac,unadelle zone "aride"del Messico, dovenon c’è acquaa sufficienza per lavarsi le mani. Due morti e parecchie decine di feriti nella bidonville di Kibera, a Nairobi, durante la distribuzione di farina e olio da cucina che si trasforma in una calca generale e che richiede l’intervento della polizia. Gli abitanti di una baraccopoli di Città del Capo in Sudafrica erigono barricate lungo le strade: gridano di aver capitol’ordine di «rientrare acasa», ma di non avere una casa doveandare e, oltretutto,hanno fame.
In India un milione di persone o forse più lascia le città dell’immensostato dell’Uttar Pradesh, ma anche di Punjab, Haryana,Maharashtra e Gujarat: non è rimasto niente damangiare. Si incamminano verso i rispettivi villaggi d’origine in lente e lunghe file, prese di mira da bande di sciacalli.
In Venezuela, che quel giorno riportava dieci casi ufficiali di decessi percoronavirus e dovenon c’era più posto per curarlida nessuna parte perché dagli ospedali sono state rimosse e razziate tutte le apparecchiaturemediche, inizia il saccheggio di grandi magazzini epiccole botteghe negli stati di Bolivar e di Portuguesa.
Si segnalano carestie gravissime in Thailandia, in Congo, a Kinshasa enello Zimbabwe, in passato uno dei granai d’Africa. Si parla di tumultiprovocati dalla penuria di cibo lungo l’Equatore; nel campo di Kabasa in Somalia; nella periferia sud di Beirut, nel quartiere di Hay el-Sellom, irivoltosi scandiscono: «Non confinateci, dateci da mangiare».
Perfino in Francia, i prefetti – in particolare quello di Seine-Saint Denis in un carteggio pubblicato da Le Canardenchaîné – ammettonodi attendersipresto gravi carenze digeneri alimentari cheavrannoun impattoenorme su decine dimigliaia dipersone e potrebbero sfociare in rivolte popolari.
Del resto, per rendersi conto di come la distribuzione di pasti caldi dei volontari dei Restosdu coeur nonabbiamaiattiratoun numero superiore di persone, è sufficiente passare in Place de la République a Parigi al sabato sera, poco dopo le 19.
Per farsene un’idea, basta recarsi, sempre di sabato sera, nei quartieri a nord di Parigi, alla Porte d’Aubervilliers, dove centinaia diimmigraticlandestini in precedenza accampati sulla colline du crack ,
smantellata a febbraio,adesso se ne stanno in un’area brulla prospicientela zona industriale Cap 18: tra loro ci sono afgani, somali, qualchelibico, un bengalese, alcuni sudanesi. Sembrano smarriti, randagi, sdraiati su materassi a brandelli, immobili come se dormissero: sonoaltri famelici esseri umani che non trovanopiù niente di commestibile nei rifiuti delle strade dei dintorni e che le Ong,sovraccariche di lavoro, non riescono più ad aiutare.
Perchéparlo di tutto questo?
Perchénel corsodella miavita misonooccupato di unnumero sufficiente di situazioni di emergenza persapere che, se esiste una graduatoriadelle calamità per il genere umano, quasi certamente la fame – con i corpi vivi ma avvizziti, i bambini morti o prematuramente invecchiati, le infezioni agli occhi, la testa che fa male, la necrosi dei tessuti che avanza veloce, gli episodi di rivolta, Coupeauche dicevaa Gervaise«se haifame,mangiati unamano!E tieniti l’altra per domani», e poi il distacco finale, le ultime apnee e la morte repentina – occupa una posizione molto vicinaall’apice.
Perchéso, fin dai tempi in cui fondammo Action contre la faim – nel 1979 con Françoise Giroud, Alfred Kastler, Jacques Attali, i radicali italianiEmma Boninoe Marco Pannella, Marek Halter, il dottor Robert Sebbag e altri ancora, una piccola organizzazione ormai cresciutache gode di risorse edi mezzi d’intervento considerevoli – che né questa né altre associazioni sono riuscitea scongiurare che ancora oggi sul nostro pianeta il flagello della fame uccidesse 25 mila persone al giorno.
E, infine, perché so che il Covid– fermando l’economia all’improvviso, obbligandoa una "pausa" la globalizzazione (accusata di tutti i mali e di cui con eccessiva faciloneria dimentichiamoche in trent’anni ha fattouscire dalla miseria un terzodelgenereumano), congelando gli scambicommerciali che hannointerrotto gli approvvigionamenti per chi soffre la fame – fatalmente farà incrementare il numero degli indigenti della Terra.
Più avanti, in conclusione, vi dirò anche in che modo io consideri lo sgomentoe la paurache sisonoabbattutisul mondoinsiemeal coronavirus.
Tuttavia,perché non iniziarefacendo notaresubito, di fronte a queste notizied’agenzia che sembrano arrivare da un altro pianeta, quanto vi sia di astratto, di assurdo e – vistele circostanze – anche di scellerato nel dibattito concettuale che colloca chi è al governo nella posizione di dover scegliere tra "la vita" e "l’economia", ovvero, in realtà, tra i morti da Covid e gli altri?
Comenon restaresconvolti dall’enorme sproporzione deimezzi dispiegati per individuare, sperimentare e naturalmente propagareuna cura per un’epidemia nuova e tragica e latetra indifferenza alla quale sembrano condannatele vittime della più antica pandemia dell’umanità?
A questo proposito, ecco unaltro titolo in prima pagina della stampaamericana che ci è sfuggito.È stato pubblicato sul WashingtonPost del 29 aprile.
Mentre gli Stati Uniti, come tutti noi, ricorrono a sforzi sempre più impegnativi per nasconderequei corpi affamatisu cui il nostro sguardonon vuole posarsi, si annuncia il lancio di due colossali progetti di ricerca condotti dall’Università della Pennsylvania e dallaScuola di Igiene e di Medicina tropicale di Londra. Qual è il loro obiettivo?Addestrare cani labrador dal "fiuto eccezionale", in grado di individuare l’odore del Covid negliesseri umani.Ancora non ci hannodetto a checosa –o achi– potrebbe assomigliare quell’odore.
In ogni caso, sono felici di informarci che gli otto cani già addestrati saranno capaci, a velocità di crociera, di individuare fino a 250 casi l’ora.
Si trattadiun progetto troppoassurdo per esserevero. Eppure… Ne riparlerò in seguito.

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