Referendum. Chi non vota e chi vota poco nella Repubblica dei “riformisti”
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Non è carino che ve lo dica io, ma qualcuno deve pur dirvelo: tra meno di un mese – 8 e 9 giugno – si votano cinque referendum, che sono clandestini, invisibili e nascosti. Insomma, l’8 e il 9 giugno sono i giorni in cui i cittadini diranno: ah, ci sono i referendum? Sorpresona!
L’abilità di stampa e tivù nel nascondere le notizie ha ormai raggiunto livelli strabilianti, specie nella tivù di Giorgia, dove basta guardare la sezione economia per pensare che presto festeggeremo l’arrivo della busta paga con sciabolate al Dom Pérignon. Si aggiungono cariche istituzionali che invitano a non votare, tipo il collezionista di busti del duce La Russa, e sindacati gialli tipo la Cisl, sempre al servizio dei padroni. Più le svariate e infinite componenti dell’opposizione (?) che fomentano il casino. Pina Picierno ritirerà due schede, Calenda una, i riformisti del Pd, qualunque cosa voglia dire, si dissociano e scrivono letterine ai giornali, e finisce che la posizione di un Calenda, o di una Picierno, cioè di gente che sulla scena nazionale vale come il due di coppe con la briscola denari, occupa più spazio della notizia che il referendum esista.
Alcuni dei cinque referendum riguardano la più infame legge sul lavoro che sia stata concepita, quella che riduce le tutele con il barbatrucco di chiamarle “progressive”, che aiuta i padroni a licenziare con facilità, che impedisce il reintegro dei lavoratori cacciati ingiustamente, che permette demansionamenti a piacere, insomma il jobs act. Pd e Cgil, insieme a 5stelle e Avs, vorrebbero darle il colpo finale, dopo che già la Corte costituzionale ne ha fatto a pezzi molti articoli.
Qui entra in scena il grande psicodramma Pd, perché la legge fu voluta e votata dal Pd di Renzi, e ora che il Pd non è più di Renzi, giustamente la ripudia, trattandosi di una legge contro i lavoratori e a sostegno delle mani liberissime per le imprese. Scendono in campo le cellule renziane dormienti nel Pd, quelli che non se la sono sentita, ai tempi, di fuggire verso Italia Viva e il suo due per cento, e sono rimasti a fare la fronda interna, appropriandosi impunemente del nome di “riformisti”, come se al vertice del partito ci fosse un Comintern bolscevico (lo so, fa ridere, e per una volta non è colpa mia). Come un partito possa tollerare al suo interno un altro partito costantemente alleato ai suoi avversari è un mistero che non scioglieremo qui: ci vorrebbe l’idraulico liquido.
Poi c’è un referendum che riguarda la legge sugli appalti, per cui dovrebbe essere l’azienda principale a rispondere della sicurezza e non – a cascata – l’appaltino dell’appaltino dell’appaltino, così che quando il lavoratore casca dall’impalcatura viene fuori che responsabile è una qualche zia Pina che ha fondato la ditta l’altro ieri. Seccante, perché parlare di morti sul lavoro fa chic e non impegna, ma quando c’è da votare una norma che li tuteli almeno un minimo si fischietta distratti. In ultimo, ma non per importanza, c’è un referendum per dare agli immigrati che lavorano qui, studiano qui, pagano le tasse qui e vengono considerati italiani per doveri ma non per diritti, la cittadinanza dopo cinque anni (che per la burocrazia diventano sette-otto) invece di dieci. Apriti cielo! Invasione! Sostituzione etnica! Dove andremo a finire! Tranquilli, andremo a finire dove già siamo impantanati: una Repubblica fondata sullo sfruttamento del lavoro e sul ricatto del lavoratore, italiano e straniero, che piace tanto alla destra e ai suoi alleati “riformisti”.
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