La guerra ai professori
di MICHELE SERRA
La vera benzina del populismo mondiale è l’odio per le élite. Non per i padroni, non per i miliardari, non per i monopolisti, non per i boss — non c’entra la lotta di classe, che la destra ignora per natura — ma per le élite culturali, scientifiche, artistiche, politiche, quelle che possono mettere in campo il valore della conoscenza e il talento intellettuale.
Su di loro, da un bel po’ di anni, è dirottato il rancore degli esclusi, ma anche, e non lo si dice mai, di un sacco di gente per nulla esclusa che ha trovato un ottimo medicamento per le proprie ambizioni personali frustrate: è sicura che avrebbe avuto molto di più, dalla vita, non fosse stato per la macchinazione delle élite ai suoi danni. Accettare di essere mediocri è molto più difficile e doloroso che accettare di essere poveri.
La guerra contro Harvard è lo sbocco simbolicamente perfetto di questa annosa guerra ai professori. Le intemperanze di alcuni attivisti woke nei campus sono solo un pretesto, per altro offerto su un piatto d’argento da quel pezzetto di sinistra così settario e tribale da sembrare estrema destra (vedi l’intervista, illuminante, di Francesco Bei a Susan Neiman, su Repubblica del 21 maggio). Quando le intemperanze censorie e i moralismi vittoriani del woke saranno solo un ricordo, lo spregio populista per la cultura troverà nuovi pretesti, perché quell’odio è incolmabile.
Né Trump né i suoi ministri, che parlano un americano basico e possiedono cultura in modo inversamente proporzionale ai loro soldi, oseranno mai ammetterlo, soprattutto di fronte a sé stessi, ma la cultura rappresenta, per loro, un muro umanamente invalicabile, ed è per questo che la odiano.
Nessun commento:
Posta un commento