lunedì 7 ottobre 2024

Sette Ottobre

 

Quel ‘Diluvio’ avvicina la 3ª guerra mondiale
L’ECCIDIO DI HAMAS - La risposta di Tel Aviv e Gaza praticamente rasa al suolo. Netanyahu e il nodo ostaggi. Il prossimo fronte è l’Iran. Siamo a un passo dalla 3ª guerra mondiale
DI GAD LERNER
Svegliati dai messaggi WhatsApp dei parenti che ci giungevano da laggiù, lo abbiamo avvertito subito, all’alba di quel sabato mattina 7 ottobre di un anno fa, che stavamo vivendo un voltapagina della storia. Invasione in corso. Preceduti dal lancio di migliaia di missili fino a Gerusalemme e Tel Aviv, miliziani provenienti da Gaza avevano travolto la barriera alta 6 metri dotata di radar e sensori raggiungendo armi in pugno numerosi centri abitati. Erano i miliziani stessi a trasmettere al mondo intero le prime immagini della strage in corso, filmate coi GoPro fissati sui caschi dei motociclisti al seguito dei gipponi e dei deltaplani. Hamas, in un documento pubblicato tre mesi dopo, il 21 gennaio 2024, riconoscerà che “forse” vi furono degli eccessi “a causa del rapido collasso del sistema militare israeliano e del caos determinatosi lungo le aree di confine con Gaza”. Si contarono nei giorni successivi circa 1.200 morti e 250 sequestrati, il più piccolo dei quali aveva appena compiuto dieci mesi. Non si sa se sia ancora vivo.
Mai era successo niente di simile dal 1948, anno di fondazione dello Stato d’Israele. Dove avevano fallito gli eserciti regolari degli Stati arabi confinanti, ad umiliare gli apparati di sicurezza israeliani, con inaudita efficacia, era stato un movimento fondamentalista islamico sunnita, Hamas, che in nome della religione teorizza la necessità del martirio, ovvero il terrorismo suicida, praticato in Medio Oriente per la prima volta dai seguaci degli ayatollah sciiti iraniani. Chi ha scambiato gli uomini di Hamas per partigiani rivoluzionari, avanguardia di un popolo in lotta per la propria liberazione nazionale, davvero prende un grosso abbaglio (le donne, le madri, man mano che questa guerra s’inferocisce sono sempre più ignorate e ridotte ai margini). Lo stesso pomeriggio del 7 ottobre il capo politico di Hamas, Ismail Haniye – che viveva in Qatar e che per la verità risulta non fosse informato dell’operazione “Diluvio al-Aqsa”, così come non lo erano i vertici di Teheran – lanciò un proclama alla gente di Gaza: preparatevi, dovrete versare molto sangue, un sacrificio necessario a ottenere la ricompensa divina, la liberazione della nostra terra. Haniye verrà ucciso con omicidio mirato proprio in Iran l’estate scorsa, subito rimpiazzato da Yahya Sinwar. Ma aveva previsto come il premier israeliano Netanyahu sarebbe caduto nella trappola. Umiliato nella sua promessa di “una pace basata sulla forza”, cioè sull’occupazione militare e sulla sottomissione di cinque milioni di palestinesi tra Cisgiordania e Gaza, nel giro di pochi giorni Netanyahu scatenò addosso agli abitanti imprigionati nella Striscia un’operazione militare per annientare Hamas; trasformatasi subito e premeditatamente in una criminale carneficina perpetrata sotto gli occhi indignati del mondo intero. Oltre 40 mila palestinesi morti, Gaza ridotta in macerie, Hamas ridimensionata sul piano militare ma, benché invisa a gran parte della popolazione, molto rafforzata politicamente. Un doppio disastro, che a onde concentriche espande quel conflitto locale non solo trascinandovi l’intero Medio Oriente dallo Yemen al Libano all’Iran, ma trasformandolo nel focolaio di una possibile guerra mondiale. Un anno dopo, ancora imbottigliato a Gaza, il governo estremista di Netanyahu s’illude di vincere la guerra balistica a migliaia di chilometri di distanza dando una spallata definitiva all’Iran, non bastandogli l’inconclusa sfida mortale agli Hezbollah che sta martoriando il Libano. Poniamo che nell’immediato appiccare questo incendio dia all’establishment israeliano la sensazione di aver ristabilito la deterrenza. Ma credono che l’Israele del futuro possa vivere in sicurezza schiacciando sotto un tallone di ferro i palestinesi? Credono cioè che esportare la guerra rimuova la guerra domestica di cui anche i recenti attentati terroristici, non fosse bastato il 7 ottobre, segnalano la ripresa?
Le lacerazioni interne alla società israeliana si sono acuite, nonostante la recente euforia isterica seguita all’omicidio mirato di Nasrallah. Dodici mesi dopo Israele è un posto meno sicuro per chi ci vive. Più isolato e screditato nelle relazioni internazionali. Sempre meno democratico al suo interno: un’etnocrazia ebraica, oltre che disonorevole, è un passo verso la perdizione. Ma lo stesso, sia ben chiaro, si può dire dei palestinesi sui quali a partire dal 7 ottobre si è abbattuto l’anno più nero della loro storia. Quel giorno non ha cambiato la vita solo agli ebrei e agli arabi, agli immigrati che s’immedesimano nella sofferenza dei palestinesi e agli studenti che contestano il suprematismo occidentale. Hanno perso tutti, quel giorno. Abbiamo perso tutti. Affermare con lo spargimento di sangue l’impossibilità della convivenza fra due popoli che non hanno nessun altro posto in cui andare, è stato l’apice di un fanatismo contagioso che ci conduce passo a passo verso un mondo peggiore.

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