lunedì 4 dicembre 2023

Libro inascoltato

 

“Per giusta causa”, il romanzo che la sinistra non sa leggere
STORIE DI ORDINARIA DIGNITÀ NEGATA - L’avvocato Chiton. Dà ascolto a persone di ogni età e professione che vengono a cercare il diritto alla giustizia. Che vuole dire, prima di ogni cosa, diritto all’esistenza
DI TOMASO MONTANARI
Se dal libro Per giusta causa di Danilo Conte (edizioni Milieu 2023) fosse tratta una serie televisiva, sono certo che sarebbe uno strepitoso successo. E, sia detto col dovuto rispetto, riuscirebbe a incidere sul senso comune in misura assai maggiore della più agguerrita campagna sindacale. Il protagonista di questi diciassette racconti – scritti con una felicità di prosa e una leggerezza pensante che avrebbero incuriosito Andrea Camilleri – è l’avvocato Chiton, e la scena prevalente è Firenze (ma alcune storie hanno a che fare anche con Piacenza, Milano, Genova…).
Chiton è un giuslavorista, un avvocato di diritto del lavoro: e a questo punto il lettore inizierà a dubitare della sanità mentale di chi scrive. Cosa può esserci di avvincente nelle cause di lavoro? Leggetelo, e mi saprete dire. Il libro palpita di vite: vite letterarie dietro alle quali si percepiscono (quasi si riescono a toccare) le vite reali che le hanno ispirate. A volte velate da qualche variazione: a volte (come nel caso di Abd El Salam, ammazzato mentre scioperava “per diritti non suoi”) restituite nella crudezza oggettiva della verità storica.
E poi c’è la vita di Chiton, che cerca di imparare a non soffrire troppo in una giungla in cui le persone sono vittime e bersagli. Chiton è coriaceo: ma non al punto di non sognare, lungo tutto il libro, una via d’uscita: “Gli capitava di pensarci sempre più spesso. Come sarebbe stato vivere tutto l’anno al mare? Avere una pescheria a Castiglioncello, per esempio. Anzi no, meglio, essere un commesso in una pescheria di Castiglioncello. Non avere altra responsabilità che quella di sorridere a chi compra il pesce. E vendergli indifferentemente quello di oggi e quello del giorno prima. E se un giorno non vendi niente, chi se ne frega. Finito il turno correre su uno scoglio, senza più bisogno di parole, rimanere in silenzio delle ore, senza nemmeno pensare. Non avere niente da vendicare. Fermarsi in mezzo al ponte, senza il bisogno maledetto di stare sempre da una parte sola o di inventare ogni giorno una soluzione, dare una, dieci, cento risposte. Non era nato per dare risposte. Aveva sempre preferito le domande e invece di lavoro faceva quello. Dava risposte”.
Eppure, Chiton resiste, va in studio, ascolta, studia e lotta in tribunale. Lo fa per “giusta causa”: l’unica per cui si potrebbe licenziare, ma che qui vien rovesciata nella giusta causa delle vite che gli si affidano. Per Gaia, che lavora “come pianista in Teatro. Con le sue dita accompagnava i passi di danza del corpo di ballo. Da vent’anni era precaria. Per 108 volte, con 108 contratti successivi il Teatro l’aveva convocata per esigenze ‘temporanee’ una temporaneità lunga un quinto di secolo”. Gaia, che spera che il tribunale arrivi prima della sua malattia.
Per Cinzia e Valeria, giovani ricercatrici alle quali il Dipartimento di cui sono insieme schiave e colonne, “dopo 6 anni di contratti di collaborazione coordinata e continuativa”, ha fatto “per tre anni un contratto a termine, e poi altri tre anni con una agenzia di somministrazione. Dodici anni in tutto”, e che poi vengono buttate via come una carta sporca. Quando il sussiegoso direttore del dipartimento viene trascinato in tribunale da Chiton, giura di non conoscerle quasi: e paradossalmente non mente, perché mai le aveva viste come persone. E nemmeno lì si cura di loro, finché Chiton non gli pone un’unica domanda: “‘Giudice, può chiedere al teste se è vero che la relazione che lui ha tenuto il 22 giugno del 2013 in un Convegno a Lione è stata interamente scritta da una delle due ricorrenti, mostrando al teste il documento n. 14?’”. Il documento n. 14 era una mail con la quale Valeria scriveva al Professore: ‘Le allego la relazione, spero che vada bene, mi dica se occorre altro’”.
Chiton a volte vince, a volte perde: e nel frattempo cerca di tenere in piedi la sua relazione con Silvia, e di trovare un canale di comunicazione con Martina, figlia adolescente ha il dono soprannaturale di smaterializzare chiavette usb con cadenza pressoché quotidiana. Ma soprattutto Chiton ascolta. Ascolta persone di ogni età e di ogni professione che vengono da lui a cercare quello che non hanno trovato da nessun’altra parte, e che nel suo sguardo finalmente trovano: il riconoscimento della loro dignità, di un diritto alla giustizia che è prima di ogni altra cosa diritto all’esistenza.
Per giusta causa fa quello che la sinistra politica non riesce a fare: fare dell’ingiustizia che travolge milioni di vite diverse, il motore di un’aspirazione collettiva alla giustizia. Che è poi proprio questo: dare ad ogni persona la dignità di persona. Lo stupore misto a felicità con cui si chiude il libro è lo stesso con cui Josè – il camallo di Genova che ferma, con l’arma incruenta dello sciopero l’ennesimo carico di armi – riceve una telefonata di papa Francesco: “Ci ha invitati… Dice che siamo… Portatori del vangelo. Belin… Io nemmeno l’ho letto il Vangelo, sono anarchico io… Ma ha detto così”.

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