Voce del verbo “rimuovere”: la Costituzione di don Milani
LA LEZIONE DEL PRIORE DI BARBIANA - La missione che il Vangelo affida oggi a un buon cristiano è la stessa che la Carta ha affidato alla Repubblica: cancellare la sottomissione dei poveri
DI TOMASO MONTANARI
Nel dibattito su don Lorenzo Milani favorito dal centenario che va chiudendosi, non si è forse abbastanza sottolineato il viscerale legame tra il priore di Barbiana e la Costituzione della Repubblica. Nel suo L’esilio di Barbiana, Michele Gesualdi scrive che Milani, “in una delle ultime notti che ero con lui ad un tratto mi disse: … ‘non si tratta di produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente. Il buon cristiano, oggi non si limita a fare l’elemosina ma s’impegna a lottare per rimuovere le cause che tengono i poveri in condizione di sottomissione e di miseria’”. Un vero testamento spirituale, capace di concentrare in poche righe il nucleo incandescente del pensiero del Priore. Una spia lessicale inconfondibile (quel “rimuovere”, all’infinito, nell’ultima frase) rinvia in modo assai trasparente al celeberrimo secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Né è solo la scelta della parola: è la struttura concettuale e sintattica della frase a coincidere, significando che il compito che il Vangelo affida oggi al buon cristiano è lo stesso che la Costituzione affida alla Repubblica: cancellare la sottomissione dei poveri costruendo un’eguaglianza non formale, ma sostanziale.
Il rapporto tra Milani e la Carta appare strettissimo fin folgorante definizione che ne dà nella Lettera a don Piero (1953-54) pubblicata come seconda appendice di Esperienze pastorali: “La Costituzione … una legge che un popolo s’è data? Che un popolo ha pagato così cara: sangue, fame, guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte. E poi non è una legge qualsiasi. E quella che il Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l’unica che ridia al povero un volto quasi d’uomo. Non gli riconoscerà ancora il potere sopra le cose. Ma almeno sul suo lavoro: di darlo o non darlo quando gli pare”. In quell’“ancora” c’è la profonda comprensione del valore progettuale della Carta: vista qui letteralmente come “una rivoluzione promessa”, per usare una celebre espressione di Calamandrei.
Sono notissimi i passi della Lettera ai Cappellani, e poi della Lettera ai Giudici (siamo nel 1965), in cui l’articolo 11 diventa la misura e la lente con cui guardare all’intera storia delle guerre italiane dall’unità in poi e a quelle del futuro (e, ahimé, di oggi). Ma è nella Lettera a una professoressa (comparsa, in extremis, nel maggio 1967) che il movente costituzionale di don Milani diventa centrale. Un testo che si può leggere come un atto di «resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione»: sono parole del famoso articolo sul diritto di resistenza che Giuseppe Dossetti propone alla Costituente il 21 novembre 1946, e che pur essendo approvato e accompagnando per lungo tratto il progetto di Costituzione viene infine cancellato. Quella resistenza, continuava il testo, “è diritto e dovere di ogni cittadino”: la feroce critica pubblica della Lettera va intesa in questo quadro, come un pubblico e collettivo atto di resistenza alla violazione dei diritti di tutti i ragazzi “scartati” da una scuola che non aveva capito il progetto della Carta. Nella Lettera si trova anche il più specifico – e quanto geniale! – contributo di Milani all’esegesi costituzionale. Fingendo di non sapere che, quando l’articolo 3 primo comma elenca tra le distinzioni che non devono precludere l’eguaglianza anche quelle “di lingua”, ciò si riferisce alla non discriminazione delle minoranze linguistiche (dalla Val d’Aosta all’Alto Adige), egli scrive: “Lo so anch’io che Gianni non si sa esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l’avevate buttato fuori di scuola l’anno prima. Bella cura la vostra. … Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola: ‘Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua’. L’ha detto la Costituzione pensando a lui. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione”.
Parlando “con autorità” (Marco, 1, 27) don Milani interpreta la Costituzione: le distinzioni di lingua sono ora per lui (e poi inevitabilmente per tutti noi) il grado in cui le cittadine e i cittadini possiedono la lingua italiana, quasi in una prolessi di quelle “condizioni personali e sociali” che in clausola di comma alludono, ma solo implicitamente, anche alla scolarizzazione e alla cultura. Immaginare oggi don Milani, significa immaginarlo a fare scuola di italiano ai figli dei migranti (quelli che la cristiana Giorgia vorrebbe segregare in Albania): nuovi poveri da emancipare, nuovi italiani cui restituire dignità ed eguaglianza. In nome di quella stessa Costituzione: finché c’è.
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