L’amaca
Come i cavoli a merenda
DI MICHELE SERRA
Come era suo pieno diritto, Giuseppe Conte ha replicato a Stefano Cappellini e a Repubblica sul Mes. Lo ha fatto con argomenti discutibili (che non vuol dire sbagliati: vuol dire che sono oggetto di discussione, ammesso che la parola “discussione” abbia ancora un senso). Ma un punto apparentemente marginale della sua replica faceva cadere le braccia, ed è l’attribuzione a Cappellini — e per esteso a Repubblica — di una identità “salottiera” che non solo è indimostrabile e pretestuosa, ma incarna, con una banalità mortificante, il pregiudizio stupido della destra populista.
Se il capo del secondo partito di opposizione parla e pensa come Meloni e Salvini, e come Libero e La Verità, ricalcando i luoghi comuni del conformismo governativo, vuol dire che abbiamo un grosso problema: come quadro politico e come Paese. Non so se Cappellini sia di sinistra tanto o poco o per niente, so che quando parla argomenta quello che scrive e so che non lo manda nessuno. È un signore che firma le proprie opinioni, come buona parte dei giornalisti italiani. Se ha ragione, ha ragione da solo, se ha torto, ha torto da solo: ecco un principio liberale — la responsabilità individuale — che il partito dell’“uno vale uno” dovrebbe capire e soprattutto dovrebbe difendere: Cappellini vale Cappellini, Conte vale Conte.
I salotti e la gauche caviar c’entrano come i cavoli a merenda. E il fatto che Conte li abbia tirati in ballo legittima, purtroppo, l’ipotesi infausta che il cosiddetto campo largo sia impraticabile, dal momento che un suo pezzo significativo (quello guidato da Conte) non solo vota come la destra, ma ragiona come la destra. Peccato.
Meloni governerà un altro paio di legislature. Conte, non si sa.
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