sabato 6 ottobre 2018

Quella linea sottile


Ci passavo, e ci passo, davanti ogni giorno alla struttura ospedaliera della mia città, oramai pregna di sapore desueto, che entro mille anni sostituiremo con una più nuova e figlia del pressappochismo da politiche lucrose, senza guardarla né soffermarvici mentalmente quasi mai riguardo all'effusione di dolore che, come tutti i nosocomi, essa emana nell'etere attorno, insensibile per comoda abitudine ed inerme sino a quando un dardo scagliato da destino e casualità, centra il proprio cuore. 
E allora, e mi è successo, scavalchi quella sottile linea tra la normalità e l'ansia di riportarvici i cari appena possibile, sfanculando letti e cateteri.
Ed il mondo che appare con l'intreccio di vite, di storie, di occhi, di passi furenti o accelerati, l'ansia del giorno nuovo, il rifiuto delle leggi biologiche universali, risveglia bruscamente dalle convinzioni post fiabe tramandate dagli avi, in cui si legge che la regola scritta da chissà chi, vorrebbe che tutti, ma proprio tutti quaggiù, stessimo bene per secoli, paciosi e festanti. 
La linea sottile scavalcata invece ti scrolla parvenze di benessere generalizzato, immettendoti dentro ad un girone composto di attese, di meditazioni, di chiacchiericci con camici bianchi deambulanti, di sale gremite ed attente all'apertura, sempre ritardata, di porte immettenti in reparti, irti di segnali inquietanti, di persone sparite dai letti con annessi dubbi e domande sulla loro sorte, di nuovi arrivi annunciati da voci vacue tipo "oggi tocca a lui!" di questa roulette indegna ed irritante sempre in movimento, sempre funzionante, sempre scegliente nuovi candidati a quella attesa dolorosa chiamata degenza. 
Si, attesa: il paziente attende: l'alba, la colazione, la visita medica, i parenti, il pasto, il nuovo esame, la cena-merenda, la notte, la solitudine, la nuova alba. 
Tutto è attesa, tutto attende. 
Umoralmente cerco forze annaffianti il buonumore, la satira, la speranza, indirizzandomi al sogghigno per non afflosciarmi totalmente. Per questo riporto le rincorse alla sfiga ascoltate in sala d'attesa, lo srotolamento di fratture, operazioni, analisi, visite, ricoveri che alcuni presentano a voce alta per primeggiare, giganteggiando, nella speciale classifica "top sventura", oppure il vassoio del pasto, quel semolino indegno persino a capre ed asini, con tutto il rispetto, al sapore misterioso di salsiccia. 
E le traiettorie di medici ed infermieri nel reparto, i loro sguardi, il trascinamento per abitudine, a volte insofferenti, nella gestualità ordinaria, le risposte come da copione, la speranza svenduta a fette a tutti per non innescare stordimento da fine, la mancanza palpabile di una direzione che formatti le anomalie già dette, l'arrivo del meriggio annunciatore di un'altra notte, di un altro distacco da chi, amorevolmente, è faro, custodia, sigillo di raccolte di ricordi, legaccio di fascine d'emozioni, baluardo contro lo sperdersi nel buio gelato della malevola indifferenza.            

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