mercoledì 17/10/2018
Scambiatevi un segno di pace (fiscale): in fondo siamo all’osteria
di Alessandro Robecchi
Guardo la mia piccola pila di multe regolarmente pagate e mi si apre il cuore. Ci sono un paio di autovelox (buste verdi), un paio di divieti di sosta del mio Comune (buste bianche), poi quella volta che mi era scaduto il ticket del parchimetro, e poi la mia preferita: la multa presa mentre ero alle Poste a pagare una multa. Record. L’ho incorniciata, cioè, prima pagata, poi incorniciata. Osservo queste piccole madeleine del mio essere automobilista imperfetto – tutte pagate – alla luce della nuova pace fiscale e modifico la mia idea di stato di diritto: sono un coglione. Fossero solo le multe.
Il problema, invece, è la semantica, la scelta delle parole, la costruzione delle formule. In un Paese dove esiste un decreto, votato ogni anno, che si chiama Milleproroghe, infinito elenco di cose non fatte, trovare nuovi nomi fantasiosi per vendere vecchia merce come un semplice condono non è facile.
“Pace fiscale” è una buona soluzione. Intanto è in italiano (i governi precedenti l’avrebbero chiamato “Fiscal Love”) e poi descrive bene il clima da osteria, ehi, qua la mano, pare di vedere una locanda con vecchi contadini, una pittura dell’Ottocento. “Pace fiscale” presuppone che si chiuda una guerra, che tacciano i cannoni e si ritrovi una garrula cordialità tra chi non ha pagato e chi dovrebbe – leggi alla mano – fargli il culo. È una guerra a cui quelli che hanno regolarmente versato tutto, magari cristonando e negandosi altre cose, magari rimandando un acquisto perché la multa veniva prima, assistono mentre gli cascano le braccia. Cose tra loro, insomma, tra chi ha sgarrato (poco, la multa, ma anche parecchio, fino a 100 mila euro, in un Paese dove il reddito medio pro capite è di 27 mila), e chi cerca di incassare quel che può. Che c’entriamo noi che siamo in regola, a parte un retrogusto di fregatura?
Si dirà che è il ritornello che si sente ad ogni condono, quando si chiama in italiano (ah, i vecchi “concordati” di Silvio!) e quando si chiama in inglese (la Voluntary Disclosure, che pareva una categoria di Youporn). È vero in parte.
Divertente invece che sia così solerte nel perdonare, condonare e cancellare regole chi proprio in questi giorni si appella a regolamenti e cavilli d’altro tipo. La Lega, che voleva addirittura un tetto più alto per il suo condono, che tuona ad ogni passo contro la burocrazia che strangola il cittadino, usa la burocrazia per strangolare altri cittadini, purché stranieri. Le storie delle mense scolastiche di Lodi sono note: la burocrazia usata come cappio punitivo e guinzaglio corto, i moduli dai paesi d’origine, la guerra di scartoffie per negare diritti, una specie di tassa sull’articolo 3 della Costituzione mascherata da “rispetto delle regole”.
Il “debole-coi-forti-e-forte-coi-deboli”, che è la cifra dell’esplosione salviniana nel Paese, non poteva avere in un solo giorno descrizione più plastica: di qua si perdona chi ha sgarrato, si chiude un occhio, si tende la mano (pace!); di là, dalla parte dei nuovi italiani che lavorano qui, pagano le tasse qui, mandano i figli a scuola qui, ci si fa occhiuti e pedantissimi, chiedendo documenti impossibili e costosi per provare il gusto di un piccolo apartheid di paese (guerra!).
Per i bambini di Lodi, i migranti di Riace, i “negozietti etnici” (sic) si pretende ferreo rigore burocratico-amministrativo, spesso inventato lì per lì con intento punitivo, mentre per gli altri si mette una toppa ogni tanto, si perdona, si sana, si “mette in regola” con lo sconto. La vecchia barzelletta che la legge è uguale per tutti si aggiorna con “la burocrazia è uguale per tutti”, su base etnica. La doppia morale, insomma – legge e ordine, ma per chi dico io – diventa tripla. Tutto made in Salvini, con gli altri testimoni muti e inani, come la mucca che guarda passare il treno.
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