mercoledì 24 ottobre 2018

In simbiosi


mercoledì 24/10/2018
EDITORIALE
Più manette, più soldi

di Marco Travaglio

Siccome siamo notoriamente servi della maggioranza giallo-verde, ieri abbiamo denunciato la scomparsa dai radar di una promessa che avrebbe rafforzato di parecchio le coperture ballerine alla manovra finanziaria. Cito testualmente dalla pagina 21 del Contratto per il governo del cambiamento: “L’azione è volta a inasprire l’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale, per assicurare il ‘carcere vero’ per i grandi evasori”. Ma anche dalle parole di Matteo Salvini a Porta a Porta il 18 gennaio: “Sono d’accordo per la galera per chi evade: se io riduco le tasse e tu non paghi, io butto la chiave, sul modello americano”. Persino B., il 22 gennaio, a Non è l’Arena, ebbe un attacco di masochismo: “Pensiamo di aumentare le pene per l’evasione come negli Stati Uniti”. Poi per fortuna non tornò al governo. Ma il vicepremier 5Stelle Luigi Di Maio, ancora il 24 settembre, giurava al Fatto: “A fine settembre nel decreto fiscale verrà previsto il carcere per chi evade”. Invece nel dl fiscale il carcere per gli evasori non c’è: c’è invece il condonino, così “ino” e poco conveniente che ne profitteranno in pochissimi. E meno male, intendiamoci: ma allora non si capisce perché venga fatto, visto porta all’erario un gettito (180 milioni, per il Mef) del tutto sproporzionato al discredito che costa ai suoi autori, almeno presso i contribuenti onesti. Ora Di Maio annuncia che il carcere per gli evasori verrà infilato -Lega permettendo - in corsa nella “Spazza-corrotti” del ministro Alfonso Bonafede, che però non è un decreto, ma un disegno di legge, sottoposto agli emendamenti e ai tempi biblici del Parlamento. Campa cavallo.

Invece un governo non dico onesto, ma almeno interessato a fare cassa, avrebbe dovuto fare l’opposto: inserire l’Anticorruzione e l’Antievasione nel decreto fiscale e posticipare l’eventuale “pace fiscale” (così ciascuno avrebbe potuto leggere e capire quel che scrivevano i tecnici del Mef). Perché una normativa severa e dunque dissuasiva contro l’evasione e la corruzione (3-400 miliardi l’anno) porterebbe una montagna di soldi in più del condonino. Quanto basterebbe a finanziare tutti i redditi di cittadinanza, le riforme della Fornero e persino un primo taglio delle tasse (a chi le ha sempre pagate). E qual è l’unico deterrente conosciuto al mondo per quegli imprenditori che preferiscono la scorciatoia della mazzetta ai rischi del libero mercato degli appalti e per quei ricchi che le tasse non le pagano in toto o in parte, nell’assoluta certezza dell’impunità? La certezza della galera. Che oggi è prevista sulla carta, ma nei fatti remotissima, quasi fiabesca.

Per tre motivi. 1) La prescrizione scatta dopo 5 anni o al massimo 7 anni e mezzo (da quando è stato commesso il reato), insufficienti per le verifiche fiscali (che arrivano dopo 2 o 3 anni), avviare le indagini, inoltrare rogatorie, commissionare perizie contabili e ricevere le risposte, celebrare l’udienza preliminare e i tre gradi di giudizio. 2) Le pene sono troppo basse (per i reati fiscali, da 3 a 6 anni massimi), anche perché sono finte: fino a 4 anni non si va in carcere. 3) Le soglie di non punibilità sono troppo alte. Sulla prescrizione, Bonafede ha in mente di bloccarla dopo la condanna di primo grado, ma non basta: deve decorrere da quando il reato viene scoperto. Sulle pene e sulle soglie, nulla ancora si sa. Ma basterebbe copiare uno a caso fra i sistemi penal-tributari dei Paesi più evoluti del nostro, che riescono a mandare davvero in galera molti colletti bianchi, come gli Usa e la Germania (da noi sono poche decine su 50 mila detenuti).
La modica quantità consentita di evasione e frode la inventò il centrosinistra a fine anni 90. Poi, nel 2006, il governo Prodi approvò pure un indulto di 3 anni per i condannati a quasi tutti i reati, fiscali inclusi. Dopo la crisi del 2009, persino Tremonti abbassò un po’ le soglie. Nel 2014 arrivò Renzi e le rialzò a dismisura, rendendo praticamente impossibile non solo la galera, ma persino le indagini e i processi agli evasori. Da allora anche chi s’impegna allo spasimo per finire indagato, imputato e arrestato, non ci riesce. Per commettere il reato di omessa dichiarazione bisogna nascondere al fisco almeno 50 mila euro all’anno (prima era 30 mila). Per quelli di omessi versamenti e dichiarazione infedele, bisogna evadere più di 150 mila euro (prima era 50 mila). Per quello di evasione dell’Iva, bisogna occultare addirittura oltre 250 mila euro. In pratica, chi fa ogni anno 300 mila euro di fondi neri (pari a 150 mila di mancate imposte) non commette alcun reato e non rischia nulla. Invece chi ruba un portafoglio con 100 euro rischia fino a 6 anni di carcere. In Germania non esistono soglie, ma pene modulate sulla gravità dell’evasione: carcere vero sopra i 100 mila euro, fino a 10 anni per i casi più gravi. In Francia la pena massima è 5 anni, ma veri, non farlocchi come da noi. Negli Usa si rischiano fino a 30 anni, e non in teoria: esistono grandi evasori condannati a 27-28 anni. I controlli, a opera di 2300 agenti speciali e specializzati, sono a tappeto: ogni anno un americano ricco su 7 viene ispezionato e il 90% di chi viene indagato viene poi condannato e sconta la pena dietro le sbarre per un periodo medio di 2 anni e 8 mesi, che diventano 3 anni e mezzo per i manager di società (carcere vero, non domiciliari o servizi sociali). In Italia il 98% degli evasori denunciati la galera non la vedono nemmeno in cartolina. E allora, se il rischio è quasi zero e il vantaggio è un mare di fondi neri, perché chi può non dovrebbe evadere? Con una seria legge antievasione e anticorruzione, il governo non avrebbe evitato la bocciatura europea. Ma almeno potrebbe dire ciò che ora non può dire: di aver fatto tutto il possibile.

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