domenica 23 maggio 2021

Che Fiaba!

 


Quando le Langhe divennero Macondo Il viaggio segreto di Gabo
di Maurizio Crosetti
MONFORTE D’ALBA
Molti anni dopo, di fronte al portone del suo albergo, il ristoratore Nino Rocca si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere Gabo. Era quasi sera, veramente, ed era luglio. Salì dal fondovalle verso la collina un macchinone verde con una targa probabilmente tedesca, N NP 900, una decappottabile. Si fermò tra la chiesa e l’insegna di “Felicìn”, ristorante con camere, e ne discese un ometto con i baffi, né alto né basso ma più basso che alto, sorridente. Rosina Clerico, 78 anni, mamma di Nino e moglie di Giorgio che allora gestiva l’albergo, ricorda benissimo quel momento. «Avevamo di fronte Gabriel García Márquez, ma né io né mio marito lo avevamo riconosciuto. Quel signore era molto gentile, non potevamo mandarlo via. Così Giorgio telefonò al parroco, don Carlo Ocole, e gli chiese se gli andava di accogliere per una notte quell’ospite inatteso di cui non disse il nome. Il prete rispose che non c’erano problemi. Portammo lenzuola pulite e asciugamani, e García Márquez occupò la stanza della perpetua che ovviamente non c’era. Il mattino dopo si liberò una camera qui da noi, e cominciò un’amicizia ».
Il più grande scrittore del mondo arrivò in un angolo magnifico e sperduto delle Langhe, chissà come.
Era sbucato dal nulla. Quella sera il parroco e lo scrittore parlarono a lungo e don Carlo, che era un lettore forte, scoprì con enorme stupore chi aveva di fronte.
«Quando la mattina dopo ce lo disse, strabuzzammo gli occhi. Poteva essere il 1980 o il 1981». Una manciata di mesi più tardi, Gabo avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. A quel tempo Nino Rocca era solo un ragazzo, ma anche lui conserva del García Márquez langarolo una memoria vivissima: «Io e papà ci facemmo scattare delle fotografie davanti all’automobile dello scrittore, che viceversa non amava essere ripreso: era qui per stare in pace.
Noi eravamo un poco in soggezione, non volevamo rompergli le scatole, e anche dei suoi grandi romanzi non osavamo chiedere. Lui e papà parlavano di politica, mio padre era un liberale. Si mettevano sotto la pergola, vicino al pozzo, e poi andavano a fare “il giro dell’ombra” nelle cantine. Mi pare che a Gabo piacesse il Dolcetto e amava tantissimo camminare. La mattina si alzava tardi, faceva colazione, leggeva molto, a volte scriveva, per lo più a mano. Noi però gli prestammo la nostra Olivetti Lettera 22 che conserviamo come una reliquia. Poi faceva una bella camminata e naturalmente a tavola non si tirava indietro: carne cruda, tajarin, plìn e brasato al Barolo».
Così l’inedito Gabo piemontese si innamorò delle colline di Pavese e Fenoglio, e tornò a Monforte in vacanza per altri cinque o sei anni, sempre da solo, sempre al volante di quella specie di portaerei scoperta. «Chiedeva la stessa camera - ricorda Rosina - quella con la vista sul colle di Novello e sul Monviso. Lui e mio marito parlavano in inglese e si prendevano sempre in giro, due tipi molto scherzosi. Si piacquero subito. Si figuri che Giorgio chiamava “García Lorca” il suo amico, il quale stava al gioco e una volta si presentò con una copia di Cronaca di una morte annunciata , prima edizione italiana, copertina rossa. Prese una penna e scrisse la dedica». La signora ci porge il libro, ecco l’elegante grafia di Gabo. Leggiamo: «Giorgio, lo prometido es deuda. I hope you will enjoy it». Firmato “García Lorca”. La promessa è debito. E quel nome fittizio che tra loro era ormai un tormentone, uno sketch. «Giorgio e Gabriel morirono tutti e due nel 2014, a un mese di distanza», dice la donna. .
La presenza del leggendario scrittore, praticamente in incognito, mosse Giorgio Rocca a curiosità. Quando aveva finito di cucinare, si spingeva fino ad Alba per cercare i libri dell’amico. «Una volta papà mi prese da parte e mi fece: “Nino, ma chiel lì a l’è famos!”, quello lì è famoso. “Vado a caté ij soj lìber”, vado a comprare i suoi libri. Non che García Márquez si desse delle arie, proprio per niente. E negli anni che seguirono, credo che papà abbia letto tutti i formidabili romanzi di Gabo o quasi. Anch’io in verità, nonostante fossi un ragazzino. Però mi ricordo che Cent’anni di solitudine l’ho quasi odiato per quell’impossibilità di cambiare il destino: a me sembrava che parlasse del nostro mondo contadino, dove tutto gira sempre in tondo. Oppure, chissà, quella saga familiare mi faceva pensare alla nostra, di famiglia».
Forse a Felicìn Rocca, il nonno, volendo una sorta di Aureliano Buendìa tra i fornelli, poi al padre Giorgio e infine a se stesso, «perché anch’io mi chiamo Felice come l’antenato, Felicino e da lì Nino, vede bene che nei nostri cent’anni senza solitudine finiamo col chiamarci tutti con lo stesso nome». Per qualche anno, il libro con la preziosa dedica non saltò più fuori. «Era sparito, ma per fortuna l’abbiamo ritrovato» racconta Rosina mentre cerca vecchie fotografie in una scatola di latta. «Mi chiamava il mio angelo» conferma Silvia, la moglie di Nino, il quale rivede tra i molti ospiti del padre un signore con gli occhi azzurri e lo sguardo da attore del cinema: «Quand’era qui, arrivava sempre a pranzo alle tre del pomeriggio da Dogliani, papà ogni volta gli diceva “ma Giulio, perché non vieni un po’ prima?”, e quell’altro rispondeva che gli garbava così perché voleva starsene da solo e tranquillo. Poi si metteva a mangiare. Si chiamava Giulio Einaudi».

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