martedì 6 novembre 2018

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martedì 06/11/2018
IDENTIKIT
Minniti capo del Pd? Come un vegano in una macelleria

di Andrea Scanzi

Marco Minniti ha una storia politica di peso. Ministro dell’Interno nel governo Gentiloni e prim’ancora dirigente Ds, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio (D’Alema I e II), sottosegretario al ministero della Difesa (Amato II), viceministro dell’Interno (Prodi II), quindi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai Servizi segreti nei governi Letta e Renzi. Sarà con ogni probabilità uno dei candidati alla segreteria del da sempre morituro Pd.

Secondo un retroscena assai bizzarro, i renziani avrebbero pensato di togliere voti a Zingaretti con Martina al Nord e Minniti al Sud: ricostruzione mediamente delirante, anche solo nel presupporre che al Nord ci sia gente che non veda l’ora di votare Martina. È però vero che Renzi punti su Minniti per tenersi il partito. Una pietra tombale per Minniti e, al tempo stesso, l’ennesima sciocchezza della Diversamente Lince di Rignano: Minniti, prim’ancora che renziano, è minnitiano. Chi lo conosce racconta che anche da ragazzo amasse il comando come nessuno: è possibile che usi il renzismo per arrivare al potere, ma sarebbe poi il primo a liberarsene. Guerrafondaio per amore della pace (?), Minniti è stato uno strano ministro: non dispiaceva a chi detestava Renzi e Pd, ma era (è) odiato dai tanti che non vedevano in lui nulla di sinistra.

Non pochi nel partito lo mal sopportano, e non parliamo solo di chi è ontologicamente irrilevante come Orfini. Minniti, giusto per far due nomi, non è certo nel Pantheon di Delrio e Boccia. I motivi sono molteplici. Nel 2017 l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha giudicato “disumano” l’accordo siglato tra Minniti e il raìs libico Fayez al-Sarrai per la gestione dei flussi migratori, avendo accertato che nei centri di detenzione per i migranti presenti in Libia si commettono ordinariamente atti di tortura e altre “atrocità”. È quindi possibile che gli innegabili risultati di Minniti relativi alla riduzione degli sbarchi dei migranti nel suolo italico appartengano all’antica tattica “occhio non vede cuore non duole”: tanti poveracci continuano a morire, solo che noi italiani non li vediamo (e dunque ce ne frega poco). Pur riconoscendogli doti e concretezza, suona comunque curioso che il Pd punti su Minniti per recuperare consensi a sinistra: un po’ come affidarsi a un vegano per risollevare una macelleria in crisi.

Cinque giorni fa, Minniti era a Piazzapulita. La brava Valentina Petrini ha osato pungolarlo. Minniti, come un Gozi qualsiasi, ha sclerato dandole della “salviniana”, che è come dare del berlusconiano a Travaglio o del renziano a chi scrive. Nervoso come una mina pestata da Adinolfi, Minniti ha proseguito nel suo sbrocco greve: “Allora lei è una sostenitrice di Salvini, le batte il cuore per Salvini, capisco perfettamente. È per la politica dei pugni duri sul tavolo, mi fa piacere. È informata male, nella sua voglia di difendere a tutti i costi Salvini è informata male”. Uno spettacolo pietoso. Se Salvini o Di Maio avessero fatto anche solo metà di quella scenata, gli Augias e le Boldrini ci avrebbero stracciato le gonadi col maschilismo e il sessismo. Invece niente o quasi. Un leader, per vincere o anche solo provarci, deve saper stare in tivù. Ascoltare, rintuzzare, argomentare. Tutto quel che Minniti, con la sua nevrastenia da Bolsonaro para-bolscevico, ha dimostrato di non saper fare minimamente. Studi, lavori su se stesso e ci riprovi. Oppure rinunci in partenza: la storia del centrosinistra è già strapiena di fiancheggiatori più o meno inconsapevoli della destra.

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