domenica 15/07/2018
Calende greche
di Marco Travaglio
Tale è la penuria di opposizioni che chiunque stia contro il governo andrebbe preservato come i panda. Ma, nel caso di Carlo Calenda, il discorso cambia: se i 5Stelle han preso il 32% e la Lega il 17%, è anche grazie a lui; se Di Maio e Salvini sono al governo insieme, è pure merito (o demerito) suo; e se l’Armata Brancaleone gialloverde gode di questi consensi, è perché dall’altra parte ci sono lui e quelli come lui. Prima di entrare nel merito, dobbiamo confessare una grave lacuna: per quanti sforzi facciamo, non abbiamo ancora capito cosa voglia Calenda, da dove arrivi, perché si agiti tanto, se ce l’abbia mandato qualcuno o se sia venuto da solo. Le informazioni sul suo conto sono vaghe e frammentarie. Stava in Confindustria e in seguito alla Ferrari. Poi entrò nell’Italia Futura di Montezemolo, noto trust di cervelli impreziosito anche da Andrea Romano, che naturalmente colò a picco. Allora traslocò trippe e bagagli nella Lista Monti: il più catastrofico naufragio dai tempi del Titanic. A quel punto l’approdo ideale era il governo Renzi che, grazie anche al suo fattivo contributo, sappiamo com’è finito. Dopo il 4 marzo, restava da completare l’affondamento del Pd, infatti il sadico Calenda ne prese subito la tessera. E quel gesto dannunziano, al limite del sadomasochismo, fece scalpore. “Ma è proprio sicuro?”, gli chiesero increduli alla sezione “Che Guevara” dei Parioli quando presentò la domanda, risalendo la corrente di tutti quelli accorsi a revocarla. Lui confermò, ma quelli insistettero: “Cioè, lei ci sta dicendo che, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, vuole iscriversi al Pd? È certo di non avere sbagliato partito?”. E lui, tetragono: “Certissimo”.
Un mese dopo, siccome nessuno gli aveva ancora proposto di fare il segretario, apparve un po’ meno certo e minacciò di ritirare l’iscrizione. Sperava di suscitare un ampio e articolato dibattito nelle case del popolo. “Hai sentito? Il Calenda è appena arrivato e già se ne va”. “Ma non mi dire”. “Eh sì, io non stavo più nella pelle dalla voglia di averlo. E, ora che ci aveva messo l’acquolina in bocca, rischiamo di restare di nuovo soli”. “Chissà come faremo, senza di lui”. “Che perdita, per me era come una droga”. “Io non so se sopravviverò”. “Ma no, vedrete, non oserà abbandonarci in mezzo a una strada”… Invece nessuno alzò un sopracciglio. E, se uno azzardava: “Hai saputo di Calenda?”, si sentiva immancabilmente rispondere: “Calenda chi?”. Alla fine decise di restare, per spaventare i pochi pidini inclini a dialogare con Di Maio per il governo. “Ambè, se Calenda non ci sta, allora non se ne fa nulla, sennò poi chi lo sente, quello”.
Fu così che nacque il governo Conte, da lui subito ribattezzato “sovranismo anarcoide”: una di quelle geniali espressioni icastiche che nessuno capisce, ma proprio per questo spopolano sulle terrazze dei Parioli. Sulle ali dell’entusiasmo, Calenda lanciò l’idea di sciogliere il partito a cui si era appena iscritto (anticipando la sorte di quelli precedenti) per “andare oltre il Pd”. Qualcuno osservò timidamente che avevano già provveduto gli elettori, votando M5S. Lui allora rilasciò un’intervista al Foglio, un modo come un altro per entrare in clandestinità, e lanciò una nuova supercazzola con scappellamento a destra: il “Fronte repubblicano”, che seminò il terrore in casa Savoia, mentre nelle sezioni e nelle case del popolo si rincorreva un interrogativo angosciante: “C’è forse un pericolo monarchico e non ce ne siamo accorti?”. Altri ricordavano che l’ultimo partito repubblicano, quello della famiglia La Malfa, non andò mai oltre il 4%: un buon viatico. Poteva chiamarlo Fronte contro il precariato: avrebbe avuto 3,5 milioni di potenziali elettori. O Fronte contro la povertà assoluta: ne avrebbe avuti 5 milioni. Ma poi quelli avrebbero potuto chiedergli conto dei due record centrati dal Pd in 7 anni di governo: meglio non provocarli. Che differenza passi fra il Pd renziano e il Fronte calendiano, non l’ha capito nessuno, se non che Calenda è un Renzi con la pancia. Ora il leader della corrente oltrista è già oltre: punta alla Direzione. Ma l’autoreggente Martina se lo scorda e trova un posto per tutti, financo per la Madia (alla Comunicazione, tanto non apre bocca). Non per Calenda.
Lui ci rimane malissimo e si sfoga con gli altri Oltristi Anonimi in una seduta di gruppo su Repubblica: “Non è una Direzione, è un harakiri”. S’è pure fissato su Gentiloni segretario (trascurando il dettaglio che Gentiloni non ne ha voglia e sostiene Zingaretti): faccia “un passo avanti”, “nessuno può tenersi in disparte”, “scenda in campo e dica che la ricreazione è finita”, bisogna “darsi una mossa”. Perbacco, vasto programma. E il Fronte repubblicano? “Se non piace, si può definire progressista”. Massì, abbondiamo. E dove deve stare? “Sul territorio”, mica sull’iperuranio. L’importante è tenersi stretti “Minniti, Renzi, Pinotti, Bellanova, Finocchiaro, Delrio, Mancinelli”, senza dimenticare “Pisapia, Giovannini, Bentivogli, la rete di Pizzarotti, Burioni”, ma anche – si suppone – Giovanni Rana. E cacciare “Franceschini e Orlando, che pure stimo molto, ed Emiliano, che non stimo, perché sono per una convergenza con i 5Stelle”. Giusto, pussa via. E Zingaretti e Bonaccini? “Li ho messi in questo sforzo collettivo” (pure Zinga vuole dialogare col M5S, ma può ancora guarire). Non sappiamo, al momento, se e quando quest’anima in pena troverà mai pace. Ma ci sovviene il precedente di Pisapia: un anno fa imperversava su tutti i tg e i giornali, dicendo la sua anche sugli tsunami in Estremo Oriente e gli orsi polari in estinzione. Gli unici luoghi dove non risultava erano le urne e i sondaggi. Ecco, avanti un altro. In sovrappeso, però. Se si mettono insieme, fanno mezzo leader. O Stanlio e Ollio.
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