martedì 3 novembre 2015

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L’Altrovecrazia
di Marco Travaglio - Dal Fatto Quotidiano del 3 novembre 2015

Da un libro di storia del 2030. L’ultimo atto formale della democrazia parlamentare in Italia fu il 24 gennaio 2008. Quel giorno il premier Romano Prodi – scaricato dall’alleato e ministro Mastella nei guai con la giustizia – si presentò a Palazzo Madama per verificare l’esistenza della sua maggioranza. La decisione di parlamentarizzare la crisi fece infuriare il presidente Napolitano, che pretendeva una crisi extraparlamentare perché – ipotizzò il ministro Padoa-Schioppa nei suoi diari – senza una sfiducia del Senato, Prodi avrebbe potuto tornare con un nuovo governo, stavolta di larghe intese, cui il presidente lavorava da tempo. Prodi però – come già aveva fatto nel 1998 rifiutando l’appoggio di Mastella e Cossiga per rimpiazzare Bertinotti e preferendo farsi sfiduciare per un solo voto anziché tradire il mandato elettorale – rifiutò l’escamotage e fu sfiduciato. Le elezioni le rivinse Silvio Berlusconi. Il suo fu l’ultimo governo italiano scelto dagli elettori, anche se poi tradì ogni principio democratico: seguitò a farsi leggi ad personam; espropriò le Camere e gli altri organi di controllo affidando alla Protezione civile del superprefetto Bertolaso grandi opere ed eventi per aggirare le regole con la scusa di finte emergenze; comprò deputati per rimpiazzare i fuorusciti Fini&C.

E quando nell’agosto 2011 i suoi scandali, i suoi fallimenti e la speculazione internazionale lo portarono sull’orlo del baratro, per salvare la poltrona consegnò se stesso e l’Italia nelle mani della Bce, autrice di una lettera che privava governo e Parlamento della sovranità politica e finanziaria dettando le “riforme” economiche, fiscali, previdenziali e sociali. La crisi esplose comunque a novembre: le risate di Merkel e Sarkozy sancirono l’isolamento dell’Italia in Europa e indussero decine di deputati Pdl a mollare B., con la garanzia trapelata dal Colle che non si sarebbe tornati al voto, ma sarebbe nata un’ammucchiata “tecnica” che avrebbe salvato le loro poltrone e garantito la loro rielezione, allontanando la prevedibile ondata dei 5Stelle. Fu così consacrata l’Altrovecrazia, dove le decisioni si prendono in luoghi segreti, alla larga dalle urne e dal Parlamento. Anziché far decidere ai cittadini chi dovesse pagare i costi della crisi, Napolitano partorì il governo Monti, con il programma scritto dalla Bce e via via varato a colpi di decreti e fiducie dal 90% del Parlamento, senza opposizione a parte Lega e Idv: sacrifici per i deboli (pensionati, esodati, lavoratori) e favori alle banche.

Quando poi si andò finalmente a votare perché non si poteva proprio evitarlo (febbraio 2013), gli elettori bocciarono i partiti che avevano sostenuto Monti e premiarono il M5S. Ma, nelle segrete stanze italiane e non, si decise di riportare al governo l’ammucchiata appena sfiduciata dal popolo. Purtroppo il garante dell’operazione, Napolitano, aveva esaurito il suo mandato e i candidati più accreditati a succedergli – Prodi e Rodotà – erano antropologicamente estranei all’inciucio. Niente paura: il Regno dell’Altrove organizzò una pattuglia di 101 franchi tiratori Pd per impallinare Prodi, mentre Rodotà non fu neppur considerato. Il tutto per simulare l’inevitabilità salvifica della rielezione di Napolitano. Il quale condizionò l’accettazione alla riforma della Costituzione, imposta a un Parlamento eletto con tutt’altri programmi e scritta da 12 “saggi” scelti da lui. Le larghe intese ricicciarono con Enrico Letta, scelto personalmente da B., che le abbandonò dopo la sua condanna ed espulsione dal Senato. Ma era già pronta una riedizione dell’inciucio, questa volta occulta: il Patto del Nazareno, siglato da Renzi e dal pregiudicato detenuto B. il 18 gennaio 2014 con la scusa delle solite riforme. Un mese dopo Renzi si rimangiò la parola data e fece sfiduciare Letta dalla Direzione Pd, senza passare dal Parlamento né dalle urne, e prese il suo posto con un programma alternativo, mai sottoposto al voto degli elettori e copiato in gran parte da quelli di Confindustria, Troika e banche d’affari.

Profittando della crisi di FI, Renzi prese a governare con varie maggioranze: una ufficiale di centrosinistra, le altre clandestine con pezzi di destra (acquistati con scambi occulti) da sfoderare alla bisogna per far passare tutto ciò che piaceva a lui. Comprese una legge elettorale e una riforma costituzionale improntate all’uomo solo al comando, che il Parlamento non poteva discutere nel merito, ma solo approvare senza fiatare. Già che c’era, il premier cacciò a metà mandato il sindaco di Roma, del Pd ma incontrollabile, infischiandosene del voto dei romani e non facendolo sfiduciare dal Consiglio, ma imponendo ai consiglieri di dimettersi dal notaio. Colpirne uno per educarne cento. Tanto perché fosse chiaro che la democrazia era un lusso e le decisioni si prendevano Altrove. La stampa governativa (quasi tutta) s’incaricò poi di incensare il triste commissario prefettizio venuto da Milano, città santa di Expo, dunque toccato dalla grazia divina, il quale – previe genuflessioni al Papa e a Renzi – avrebbe gestito i milioni del Giubileo senza render conto ad alcun organo democratico.

Intanto s’iniziava a parlare di modifiche alla legge elettorale: non per cancellare il mostruoso premio di maggioranza e i capilista bloccati, ma per impedire ai 5Stelle di andare al ballottaggio ed eventualmente di vincerlo. Qualcuno osava sottolineare la svolta autoritaria al ralenty, ma passava per “gufo”. E gli italiani erano molto sdegnati, ma per la squalifica del motociclista Valentino Rossi. Anch’essi, da tempo, erano Altrove.

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