La notte non era ancora sfatta, il cammino invece
sfaceva arti e soprattutto psiche.
Dentro ad una foresta impavida, intravedevo
luci in lontananza che non si avvicinavano. Il chiarore del cielo tardava
misteriosamente ad arrivare e, svoltando sulla destra, vidi una struttura,
quasi sospesa; era di un colore tendente al viola scuro e non si udivano rumori
provenienti dall’interno. Ero posizionato sopra un leggero falso piano e dietro
ad un cespuglio di prunotto attesi di essere certo che non vi fosse nessuno nei
paraggi. Mi sorpresi sulla mia reazione tendente alla tranquillità, cosa
impensabile per un timoroso del mio stampo. Finita l’attesa uscii dal verde e
mi avvicinai all’ingresso. La porta era di color noce, le maniglie dorate.
Non
vi era nessun campanello nei dintorni, solo una targhetta: “Congiuntivo”.
Aprii la porta e nel chiarore della stanza
d’ingresso vidi molte persone intente a dialogare sommessamente tra loro.
Mi
guardarono senza meravigliarsi di me ed una di loro, una ragazza minuta,
emaciata, mi fece segno di avvicinarmi.
“Hai camminato più lentamente di quanto abbia
pensato!”
“Ho fatto del mio meglio!”
Non avevo ancora terminato la frase che un
brontolio sordo, come un temporale lontano, squasso la struttura dalle
fondamenta.
Uscirono dei giovani vestiti di chiaro con degli strumenti in mano
simili a megafoni miniaturizzati, di colore verde, e si misero all’unisono a
parlare con voce angelica e dicevano: “Che tu faccia! – dovunque tu vada!
- spero tu stia mangiando!” e lo dicevano ai quattro lati, mentre gli
astanti inginocchiatisi, leggevano brani di un libro con copertina amaranto.
La ragazza corse verso di me con l’indice ritto
dinnanzi alla bocca nel segno intimante il silenzio.
“Speravo che tu avessi compreso le nostre regole”
“Che io senta da te solo parlar congiuntivo!”
“Ero contento che tu me lo dicessi!”
“Penso che tutti siano già eruditi in merito”
“Si. Lascia che tutti vadano e ti spiegherò!”
Il rombo a poco a poco svanì, come la notte. Il
sole illuminava la struttura, molto elegante e simile ad una sala d’aspetto
aeroportuale. Uomini e donne, indaffarate l’attraversavano senza badare a
nessuno intorno a loro.
La ragazza mi consegnò un foglio sempre
consigliandomi di non proferire parola e nel quale vi era scritto:
“La nostra comunità si basa sulla elementare norma
di usare, almeno una volta in ogni frase parlata, un verbo coniugato al
congiuntivo. Proveniamo da vari luoghi del pianeta e siamo stati raccolti,
molti anni or sono, da un discendente della Dea Sintassi la quale senza indugi
ci ha abbandonato allorché comprese che l’uso della parola veniva oltraggiato
oltremodo da dialetti ed ignoranza. La Dea tornò delusa nel seno di Grammatica,
il dio tenebroso e riluttante, che tutto può e tutto vede.
Ci siamo riunite in questo luogo che pare non
esistere a coloro che abusano di inglesismi, di abbreviazioni, di uso improprio
di verbi ed esercitano violenza alla struttura della frase. Ad esempio un
abitante di questo luogo può usare solo una volta nel periodo che trascorre
qui, parole come “fare” e “cosa”. Alla seconda impurità commessa, verrà
cacciato in malo modo, ricevendo quale unico ricordo un file con discorsi
trascritti da vari luoghi terrestri quali discoteche, stadi, bar e mercatini
rionali.
La nostra comunità accoglie senza distinzione tutti
coloro che riescono a trovarci.
Benvenuto amico!"
Lessi più volte lo scritto mentre sentivo gli occhi
della ragazza attenti alla mia reazione. Ella mi consegnò una lavagnetta
speciale con scritto sopra “se non sei sicuro di quello che dici, scrivilo!”
Presi l’attrezzo e le scrissi: “Facendo così, mi
mettete in grave difficoltà! Avrò paura a pronunciar favella!”
Rise di gusto e mi disse:
“Non devi essere un
illuminato, basta che tu riesca a sottostar alla regola!”
Scrissi: “E’ una parola! Ci proverò”
Mentre scrivevo, vidi un piccolo essere
all’apparenza malvagio dirigersi verso di me con far baldanzoso. Una volta
vicino esclamò
“Rotiro improviga storia stulta ed insufficente?”
“Cosa?”
Suonò un GONG enorme! Avevo pronunciato una di
quelle parole che facevano incazzare la Dea! E alla prossima sarei stato
cacciato in malo modo!
“Avrei voluto dirtelo prima che tu fossi entrato
qui! Le regole sono regole!”
Scrissi sulla lavagnetta: “Mi sto già scassando la
minchia!”
“Nel caso tu sia già stufo non ci sono problemi.
Addio!”
Riscrissi: “Chi era quel nano?”
“E’ mandato dall’alto per porci alla prova, nel
caso mancassimo di concentrazione”
Mi lanciai “Nel caso potessi, desidererei prenderlo
a calci!”
“Vieni! Ti faccio vedere il resto della struttura,
nel caso volessi fermarti!”
Camminammo attraverso pertugi sfocianti in linde
camere a due letti. In quasi tutte le stanze vi erano giovani impegnati a
studiare. Ogni tanto li udivo dialogare tra loro, sempre in modalità
congiuntivo. Arrivammo dinnanzi ad una porta scorrevole che una volta apertasi
svelò un cortile che sembrava un chiostro, con svariate piante ornamentali
attorno ad un enorme volume posizionato al centro che sembrava il libro della
vita.
La ragazza mi portò per mano davanti al libro dove
ebbi occasione di ammirare un qualcosa mai visto prima: era vivente! Si
auto-scriveva da solo in tutte le lingue del mondo! Trascriveva, mi spiegò la
ragazza, i discorsi dei terrestri evidenziando errori ed abusi linguistici.
Ad un tratto suonò forte una campana e la ragazza
mi invitò a seguirla.
“Se fosse possibile vorrei portarti alla riunione
giornaliera”
“Di cosa si tratta?”
Sentii una spinta inaudita, un vortice fortissimo
mi rapì a mezz’aria e mi portò dentro ad un tunnel, lungo quasi interminabile.
Udivo mentre scivolavo frasi del tipo “Venghi signora!” – “Se è possibile potrò
vederti”
Mi ritrovai nello spiazzo che avevo solcato
precedentemente. Solo e triste. Mi voltai e naturalmente non vidi più nulla di
ciò che prima mi ospitava.
Tornai a casa e prima di entrare, sull’uscio notai
un libro, piccolo. Lo raccolsi. S’intitolava “Sogni e parole. Parole di sogni”
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