Poveri e ignoranti. Per far crescere il Pil servono più laureati (ma tocca pagarli)
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Al festival di Sanremo dei padroni, che si svolge ogni anno a Cernobbio, hanno tenuto banco i numeri: uno, molto strombazzato da tele-Meloni e dintorni, è quello secondo cui gli imprenditori amano tanto Giorgia: otto su dieci. Non una gran sorpresa, in un Paese dove i redditi da lavoro sono fermi e i profitti e le rendite crescono. Altri numeri hanno avuto meno battage, ed è un peccato, perché vengono da un ottimo studio (Thea Group e Fondazione Crt, coordinamento scientifico Maria Chiara Carrozza) che dice, in soldoni, questo: siamo i più ignoranti in Europa, inteso come titolo di studio, il Paese con meno laureati dopo la Romania, siamo in ritardo anche sulle competenze digitali e insomma, se volete dei numeri disastrosi lì dentro li trovate tutti. Per esempio che in Italia quasi un minore su sette vive in povertà assoluta (1,3 milioni di bambini e ragazzi) e non avranno la possibilità di imparare granché, un dato che negli ultimi dieci anni è aumentato del 47 per cento. Siamo quelli dove più gente si è fermata alla terza media (10,9 milioni tra i 25 e i 64 anni) e dove chi ha un titolo di studio post-maturità è appena il 31,6 per cento (tra i 25 e i 34 anni, media europea 44,1). Si chiama povertà educativa, che spesso, quasi sempre, va a braccetto con la povertà economica, e una brava persona rispettosa della giustizia e della Costituzione (articolo 3, articolo 34) dovrebbe indignarsene parecchio, perché significa esclusione e quasi sempre ridotta capacità di critica (questo piace, temo).
Ma se non bastassero le motivazioni di scandalo, diciamo così sociali e culturali, ecco i numeri più interessanti, almeno per la danarosa platea di Cernobbio: i mancati investimenti in competenze e in istruzione sono quantificabili in 170 miliardi di Pil e in 3,2 milioni di posti di lavoro non creati. Porre rimedio velocemente significherebbe generare un bel 2% di Pil, più o meno 48 miliardi (sul fatto che poi li useremmo per comprare armi sorvoliamo pietosamente). Insomma, non conviene restare troppo ignoranti, e qui si scontrano diverse filosofie padronali. C’è quella di Cernobbio che si mangia le mani per la perdita di produttività del Paese; e poi c’è la vulgata tanto in voga, per cui i giovani sfaccendati (un esercito) non vogliono sacrificarsi, vogliono fare i dottori invece di tirare la lima, non vogliono più fare i camerieri, sapesse, contessa, eccetera, eccetera.
Due cose impressionanti: la prima riguarda le competenze digitali di base tra i giovani sotto i 19 anni (56% in Italia, media europea 73), e l’altra il divario pazzesco tra Nord e Sud, con distanze percentuali che non fanno nemmeno pensare a due repubbliche, ma a due mondi separati da un baratro.
Manca, nella nitida fotografia, un dettaglio non da poco, e cioè se il sistema imprenditoriale italiano sarebbe poi disposto a retribuire un ingegnere come un ingegnere, e non come un raccoglitore di pomodori o un consegnatore di pizze. Perché – a costo di sembrare cinico – essere preparati, competenti e competitivi è una bella cosa, ma anche essere pagati di conseguenza non è male. Migliaia e migliaia di ragazzi formati qui se ne vanno a cercare stipendi decenti all’estero, condizioni di vita e servizi migliori, costi più accessibili. Insomma, forse c’è un modo molto terra-terra per convincere tutti a una seria lotta alla povertà educativa: che se vuoi il cammello devi sganciare la pecunia e se paghi un laureato come un lavapiatti a uno non verrà tutta sta voglia di studiare.
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