domenica 14 settembre 2025

Baricco e la Classica

 

Baricco
e la Classica note di un amore grande come la vita
Da Mozart a Beethoven. Per lo scrittore, che qui anticipa il tema del nuovo libro, con i maestri della musica c’è un dialogo infinito Da raccontare con brevità e in modo “eretico” senza luoghi comuni
di ALESSANDRO BARICCO
E così mi son ritrovato a scrivere una Storia della Musica Classica , subito sapendo che avrei voluto scriverla breve ed eretica , due parole che adesso mi sembra importante provare a spiegare bene.
Se ti metti a narrare qualcosa che è durato per secoli e ti viene in mente di farlo in modo breve, scandalosamente breve, quello che hai in mente è un’acrobazia particolare, da cui sempre si trae grande ricompensa: l’idea è di staccarti dall’erudizione pura e semplice e salire in alto fino a quando il brulicare immenso dei dettagli che si possono conoscere si scioglie in un’unica figura, disegnata velocemente sulla terra: tipo la linea danzante che riassume il corso del Nilo su una mappa del mondo, quasi una firma. Se riesci a essere così breve, sintetico, quello che ottieni è l’unica cosa che conta di ciò che stai studiando: la rappresentazione della rotazione che l’umano ha fatto nei secoli in quella pratica particolare, cercando la postura giusta per prendere il vento maggiore del proprio sentire. Èun disegno che ti perdi se stai troppo attaccato a ciò che studi, e che solo inizi a vedere quando metti tra te e quel che sai una certa distanza – così si vedono le costellazioni del cielo, grazie a una vaghezza dello sguardo.
Nel caso specifico, in ballo c’era la fantastica storia del rapporto tra gli umani europei e il mistero dei suoni, un’avventura che piace far iniziare dal quinto Secolo ed arrivare ai giorni nostri. Non si ha idea di quante meraviglie si trovano lì dentro. Uno potrebbe passare un’intera vita solo a studiare la differenza tra i primi Quartetti di Beethoven e gli ultimi – traendone grande delizia. Ma, appunto, un gesto diverso è invece cercare di leggere la costellazione, abbandonando la presa tranquillizzante del sapere puro e perdendo i Quartetti di Beethoven nell’onda di un’unica grande figura secolare di cui loro sono poco più che una sfumatura. Bisogna salire molto in alto, accettare una certa vaghezza,usare la distanza come una lente, e crederci.
Farlo con lo sguardo fisso sulla cosiddetta Musica Classica concede uno spettacolo grandioso: generazioni di uomini che guidati dal talento, dal bisogno di campare, da un sapere tecnico meticoloso e da un inarrestabile narcisismo hanno raccolto i suoni, componendoli in figure, traducendoli in piacere, e l’hanno fatto rigirandosi su se stessi affinché ogni volta, a qualsiasi vento del tempo, fosse quello un modo di veleggiare, di stare a galla, di andare. Avevano in mente, ogni volta, un certo modo di stare al mondo, e sapevano farne un sound, perché quella era la loro lingua. Così, ballare la loro musica, anche solo con la mente, significa concedersi a una coreografia in cui loro scrissero chi erano e quello che amavano. Può esserci dialogo più bello? Ballare coi Padri, senza quasi dirsi una parola.
Ma lo devi fare condannandoti alla brevità, ecco quello che volevo spiegare. Non per il gusto di ridurre tutto alla durata di un reel di Instagram, vi prego. Lo devi fare perché le costellazioni sono brevi – lo sono i nomi, i grandi fiumi nelle mappe , i ritratti delle Madonne e i momenti in cui ci capisci qualcosa.
E poi, eretica . Non è che avessi in mente di scandalizzare o fare il brillante a tutti i costi – cioè, quelli sonoeffetti collaterali. La faccenda è più interessante. Bisogna sapere che a raccontare la storia della Musica Classica, per primi, furono dei visionari appassionati della metà dell’Ottocento. La visionarietà consisteva nel fatto di credere che ci fosse una storia da raccontare: un’ipotesi che a un contemporaneo di Mozart sarebbe apparsa grulla come pensare di raccontare la storia dei fuochi d’artificio. O della senape. Non c’era questa idea che la gestione dei suoni, e il suo progressivo prendere forma nelle forme conosciute, rappresentasse un movimento mentale in cui quegli umani avevano inscritto una certa idea di mondo, né si era consapevoli del fatto che l’operato di molti fosse in realtà un unico gesto collettivo, il grandioso scorrere di un unico fiume. Quando se ne accorsero, c’erano secoli da rileggere e mappare affinché chi volesse navigare quel fiume, per diletto o per utilità, sapesse dove erano le anse pericolose, le sacche, i porti, gli ormeggi. Lo fecero.
Ma, e questo è il punto, lo fecero a loro volta secondo una loro certa idea di mondo, per noi oggi facilmente riconoscibile. Era gente, per esempio, che credeva nel valore del progresso: gli riusciva difficile riconoscere un valore a qualcosa che non implicasse un upgrade e comportasse un profitto: così raccontarono quella storia come una infaticabile sequenza di miglioramenti, di superamenti, di sintesi più alte che implicavano un qualche profitto dell’anima. Era il loro modo di vivere, lo attribuirono a gente che non avrebbe saputo cosa farsene: un Vivaldi, per dire, avrebbe dovuto farsela spiegare un bel po’ di volte.
Analogamente credevano nella vocazione dell’uomo a governare il Creato, a piegarlo alle proprie necessità, e a ridisegnarlo secondo i propri scopi. Era gente che non si faceva problemi a ridisegnare la Terra (Canale di Suez) o a farsi spazio sterminando interi popoli (il West americano). Quando si misero a raccontare la Storia della musica quel che li attirava era il progressivo e inarrestabile dominio che i musici europei erano riusciti a imporre al mistero dei suoni. Si consideri che in partenza i suoni erano creature fantastiche, rilasciate dalla natura, imprendibili e senza nome: preziose risonanze incontrollabili di un’Armonia celeste. Come si fosse riusciti ad addomesticarle, a domarle completamente e a farne degli animali da compagnia era una storia che per un uomo ottocentesco diventava simbolicamente irresistibile. Gli bastava ammirare la tastiera di un pianoforte – così nitida, pulita e ordinata – per trovare la conferma che qualsiasi mistero poteva essere piegato all’utilità dell’uomo, e qualsiasi mostro poteva alla lunga finire al guinzaglio di un ragazzino di buona famiglia. Il riecheggiare in casa di un valzer di Chopin glielo confermava ogni volta che tornava dal lavoro. Così, la storia della musica divenne una saga di eroi che avevano sfidato il caos e prodotto un ordine, gradino dopo gradino, invenzione dopo invenzione: le storie possono essere raccontate in molti modi, e quello in definitiva era uno dei modi possibili: ai tempi, il migliore.
Solo che noi non siamo più così. Voglio dire, a chi è rimasto un cieco e incondizionato culto del progresso? A parte gli uffici marketing, dico. In genere abbiamo iniziato a interrogarci su cosa perdiamo scegliendo il progresso a tutti i costi, e questo mette le conquiste di un Bach o di un Wagner in tutt’altra luce: cosa abbiamo perso scegliendo quella via? Era proprio necessario il giro di vite che ci spostò da Mozart a Beethoven? Ma se fossimo rimasti per sempre nell’onda del mistero, non inventando mai il pianoforte? Giuro, si aprono degli scenari mica male.
Quanto all’idea che l’uomo (specialmente se bianco, maschio e occidentale) sia al centro del Creato e ne possa disporre a piacimento, be’, mi sembra ormai una idea tremendamente imbarazzante, a meno che tu non sia nella stretta cerchia del Presidente Trump. La cosa toglie molta efficacia alle narrazioni otto–novecentesche della musica classica: che in fondo narravano proprio il piegarsi progressivo dei suoni al volere dell’uomo–padrone, come una storia esemplare e fighissima. Tanto entusiasmo, oggi, non sai proprio dove metterlo.
Insomma, è chiaro che quella è una storia che da qui, da dove siamo noi, appare diversa. Tutta da rifare in un certo senso. Basta che ti metti con pazienza a ripeterla, lasciando cadere tanti luoghi comuni che non ci competono più, e ti trovi a dire delle eresie. Non io in particolare: chiunque. Così, alla fine, mi è venuta questa Breve storia eretica della Musica Classica, e adesso è forse un po’ più chiaro perché si intitola così. Non l’ho scritta solo per quelli che sanno chi è Rameau e che se dici tonalità capiscono di cosa parli. L’ho scritta per me e per tutti quelli che nelle prodezze dei nostri padri artigiani cercano la forza con cui avevano tutti creduto nella vita, e nella bellezza, insegnandoci per sempre il segreto della speranza.


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