venerdì 2 dicembre 2022

Il povero PD

 

Verso il congresso dem
I gattopardi Pd al varco Cambi il segretario purché nulla cambi
DI STEFANO CAPPELLINI
ROMA — A molti dirigenti del Partito democratico piacciono da sempre i giochi di parole. Tipo: «Non serve un nuovo partito ma un partito nuovo ». Oppure: «Meglio perdere che perdersi», e almeno in questo caso si può dire che l’obiettivo sia stato più volte centrato. Queste piccole inversioni o scarti lessicali forse piacciono anche perché, di base, funzionano al contrario del Pd, specie dei suoi congressi. Dove, storicamente, anche se inverti le posizioni tra le correnti, o ne sposti una su e una giù, il senso tende a non cambiare. Ora però, per la prima volta, il Pd si avvia a celebrare un congresso dove il nome del vincitore o della vincitrice non è sicuro già in partenza. Vincerà il riformista Stefano Bonaccini, favorito nella conta interna? O prevarrà la radicale Elly Schlein, che arriva al congresso da non iscritta e può sfondare alle primarie aperte? L’inedito sta creando un gran trambusto. Per capire gli schieramenti bisogna usare due criteri: il primo è la risposta alla domanda “chi meglio può salvare il Pd”; il secondo è la risposta alla domanda “chi meglio può salvare la corrente”. Tutti, naturalmente, dicono di volere “un nuovo Pd”.
C’è chi cerca di cavalcare il nuovo, chi di sopravvivergli, chi di avversarlo, ma — questo è il Pd — non necessariamente i tre propositi sono alternativi: qualcuno cavalca il nuovo per avversarlo e qualcuno lo avversa solo per sopravvivergli o addirittura per poi cavalcarlo. Le combinazioni sono molteplici. Per questo proliferano i candidati leader e le ipotesi di candidatura, queste ultime spesso senza alcun apparente senso politico. Le correnti storiche cercano di mettere il cappello sui candidati, i candidati negano di volere il loro appoggio ma sanno che è necessario, ognuno cerca spazio dove ce n’è uno libero, anche a costo di scelte improbabili o implausibili.
C’è stato, forse non c’è più, lo scenario del sindaco di Firenze Dario Nardella antagonista di Bonaccini, partita dove sarebbe stato faticoso distinguere il colore delle maglie in campo. Poi, soluzione non meno surreale, pareva che come anti-Bonaccini la sinistra interna volesse puntare sull’amendoliano Enzo Amendola, dove amendoliano è riferimento alla corrente di destra del Pci e non al cognome. Alla fine il ruolo di sfidante sinistro del governatore emiliano dovrebbe toccare al sindaco di Pesaro Matteo Ricci, che ha già un mezzo endorsement di Goffredo Bettini e una mezza promessa di Andrea Orlando. Qualche anno fa Ricci, Bettini e Orlando avrebbero rappresentato, in tre, mezzo arco correntizio del Pd, oggi rischiano di fondare una corrente comune. Potere del congresso aperto, dove il rimescolìo delle aree va incrociato con le barriere geografiche.
Sotto il Garigliano, Gaber è più ascoltato che alla Bovisa, ma cos’è la destra ma cos’è la sinistra, e Michele Emiliano e De Luca, i due governatori dem sudisti che hanno in curriculum un numero di attacchi al Pd non inferiore ai colleghi del centrodestra e una varietà di alleanze politiche paragonabili al M5S, cercano da tempo un candidato in proprio, forse perché eleggendo un loro segretario smetterebbero almeno di sfotterlo pubblicamente mentre gestiscono i loro feudi fuori da ogni controllo politico nazionale. Il resto della sinistra interna dovrebbe puntare direttamente su Schlein, scelta destinata a creare altre strane coppie, come quella che riunirà il vicesegretario uscentePeppe Provenzano e Dario Franceschini. A Franceschini in molti sono pronti a rimproverare la mossa del cavallo, accusandolo di spostarsi su una candidata lontana dalle sue posizioni. Eppure l’ex ministro dellaCultura rischia di non avere tutti i torti quando agli interlocutori che gli chiedono conto dei suoi orientamenti congressuali spiega: «Secondo voi, chi vuole che tutto resti com’è, vota Bonaccini o votaSchlein?». La questione può essere presa ancora da più lontano: cosa è davvero nuovo e cosa no?
Ieri, per dire, si è riunito il comitato costituente per discutere la Carta dei valori. Si tratta di scrivere la costituzione del Pd allargato e rifondato, che i dem dovrebbero condividere prima di eventualmente scannarsi sulle tesi congressuali. All’incontro, dove la maggior parte dei membri del comitato partecipa a distanza, parla Enrico Letta, che in questa fase cerca di fare l’arbitro non giocatore, e dà solo indicazioni di metodo.
Poi interviene l’ex ministro Roberto Speranza e dice che nella Carta deve essere chiaro l’intento del Pd di «espungere il liberismo che si è insinuato al suo interno». Andrea Orlando gli dà ragione. La giovane Caterina Cerroni cita Lenin. I membri orientati a votare Bonaccini tacciono ma escono dalla riunione determinati a minacciare di non votare la Carta qualora, dicono, dovesse diventare la vittoria a tavolino di una linea sull’altra. Una Carta dei principi votata a maggioranza, del resto, sarebbe una contraddizione in termini. Il Pd anti-liberista è più nuovo del Pd liberista? Per Schlein sì, per Bonaccini no, per gli altri candidati dipende, soprattutto dalle correnti che dovessero scegliere di appoggiarli. Lo stesso liberismo è diventato un’altra cosa da quando hanno cominciato a citarlo col prefisso “neo”. Magari la speranza è che funzioni anche per i partiti: il neo Pd. Si presta pure al gioco di parole: il neo è un difetto o un segno di bellezza?

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