La sindrome che confonde la vittoria elettorale con il senso di onnipotenza
DI GUSTAVO ZAGREBELSKY
Molte, e in tante lingue, sono le parole che contengono le due consonanti “st”. Molto spesso indicano qualcosa che “sta” stabilmente (così in greco il verbo ístemi): per esempio Stato, costituzione, esistenza, constare, sostenere e sostenibile, eccetera.
Tra queste c’è establishment . Questa parola nel discorso corrente è un modo generico di indicare un coagulo di poteri costituiti di vario genere: economico-finanziari, culturali e politici che fanno sistema e che, a chi ne è escluso, appare come un aggregato di interessi compatto e autoreferenziale. Magari al suo interno esistono tensioni e rivalità ma, alla resa dei conti, è concorde nella difesa della propria conservazione contro le minacce che possano provenire dall’esterno. Naturalmente, dicendo establishment o, se si vuole, oligarchie si usano parole generiche. Esiste varietà. Per esempio, alcuni possono ispirarsi al governo moderato, alla separazione dei poteri, al pluralismo, al rispetto dei diritti, in una parola ai principi del costituzionalismo; oppure, altri, non sapendo nemmeno che cosa ciò significhi, sono onnivori, ambiscono a un potere illimitato che scorra senza ostacoli. Tuttavia, comune è una caratteristica: vi si accede per cooptazione perché la cooptazione è garanzia di consonanza e compattezza contro le ingerenze eccentriche che possono minare dall’interno la solidità. Che piaccia o non piaccia (e a chi ne è escluso di certo non piace), l’establishment esiste dappertutto, in ogni organizzazione sociale stabile e capace di garantire stabilità. Si potrebbe dire: è un male, ma è necessario o, almeno, inevitabile. È questa quella che fu definita la “ferrea legge” delle oligarchie.
Con l’establishment ci sono le istituzioni. Esse sono garanzie di stabilità e di durata per mezzo, a dir così, delle loro funzioni di filtro o di selezione. Separano il lecito dall’illecito, ciò che è ammesso e incoraggiato da ciò che è escluso e represso. La “istituzionalizzazione” della vita politica e sociale è nell’interesse non solo dell’establishment, ma anche nell’interesse, che è di tutti, alla sicurezza e alla tranquillità. Da questo punto di vista, le istituzioni svolgono un compito che va al di là degli interessi particolare di chi si è impiantato nell’establishment. Esse sono, per dire così, nell’establishment ma, per poter svolgere i loro compiti, non devono essere dell’establishment. Devono, in altri termini, pensare e agire per il presente e per il futuro, indipendentemente da interessi mutevoli e contingenti. Se ne dipendessero, verrebbero meno ai propri compiti. Non sarebbero più istituzioni. Sarebbero vuoti simulacri. Tradirebbero la fiducia cui devono aspirare come humus indispensabile all’esercizio della loro funzione “istituzionale”. Nessuno più si fiderebbe di loro.
Poi, è venuta la democrazia. Con la democrazia abbiamo elezioni, maggioranze che cambiano e rappresentanza di interessi nuovi. Nuove aggregazioni di potere si possono affacciare e, nel caso che si prefiggano cambiamenti radicali, mirano alla discontinuità attraverso nuove istituzioni o attraverso il controllo e l’assoggettamento delle precedenti. In quanto portatrici di nuova legittimità sono onnivore delle istituzioni che provengono dalla precedente legalità. Queste sono percepite come impedimenti e devono essere, se non abolite, almeno “messe in riga” e conformate al nuovo che avanza.
Questa è la vicenda nella quale siamo immersi, già da ora. Così, con queste premesse, comprendiamo che è iniziata una partita che ha un’altissima posta in gioco. Chi ne risulterà vincitore dipenderà da molti fattori tra i quali l’attenzione dell’opinione pubblica resa consapevole dalla libera stampa che non sottovaluti e interpreti i segnali che sono davanti ai nostri occhi. Essi, per ora, riguardano le istituzioni europee, la Banca d’Italia e la magistratura, cause dell’insofferenza di chi, avendo “vinto le elezioni”, si considera per principio svincolato da limiti, controlli, contrappesi.
Le istituzioni europee. Erano passati pochi giorni dalle elezioni e già si era messo in discussione il “primato” del diritto della Ue sul diritto nazionale che è la colonna portante della costruzione della comunità degli Stati d’Europa. Non c’è motivo per credere che i motivi di questa contestazione non si estenderanno alla Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo e le Libertà fondamentali, nonché alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, a sua volta colonna portante della difesa in Europa dei principi della democrazia liberale.
La Banca d’Italia. Essa è chiamata a compiti essenziali per la stabilità del sistema economico attraverso la supervisione dei mercati finanziari e il controllo della politica monetaria e quindi dell’inflazione (all’interno del circuito delle banche centrali europeo). Ha voce sugli equilibri del bilancio, quindi sul debito pubblico e sulla lotta all’evasione fiscale e sull’efficienza del sistema tributario. È autorità di vigilanza sulle banche e sull’intermediazione bancaria (di nuovo entro un sistema di relazioni europee) a tutela della clientela bancaria e finanziaria. Controlla le operazioni di fusione, partecipazione e ristrutturazione del sistema creditizio. Esprime pareri e relazioni tecniche su questi temi e la sua autorevolezza è direttamente proporzionale al grado d’indipendenza dagli interessi politici, spesso di natura elettoralistica. Insomma, una parte importante del governo dell’economia passa attraverso gli uffici della Banca d’Italia. Problematico è il bilanciamento tra i suoi compiti tecnici e la loro rilevanza politica. In questa tensione s’inserisce l’insofferenza del Governo («sono stufa», qualcuno ha detto), specie quando la spesa e l’indebitamento sono concepiti dal mondo politico come strumento di consenso elettorale. Da sempre (siamo nel 1893, in età giolittiana), il rapporto Banca-politica è un tema “caldo”. Ingerenze politiche, da un lato; eccessiva immedesimazione col mondo bancario, dall’altro.
La magistratura. La bestia nera d’ogni classe politica non aliena dalla corruzione, intrisa di senso d’onnipotenza, è l’indipendenza della magistratura e l’efficienza dei suoi poteri di controllo di legalità. Si annunciano tante riforme e, fin qui, nulla di male. Ciascuna di esse può contenere del buono, del meno buono, del cattivo e del pessimo: si deve discuterne e lo si farà, se la discussione potrà esserci, aperta e onesta, nelle sedi preposte. Ma, se si guarda all’insieme non si può far finta di non vedere fin da ora che il risultato può essere ciò che si diceva prima: “mettere in riga” un’istituzione che, bene o male a seconda dei casi, ha rappresentato un argine all’impunità alla quale molte persone di potere aspirano.
L’elenco finisce qui, per ora. Ma, che cosa accadrà quando la Corte costituzionale “osasse”? Osasse annullare, in nome della Costituzione, decisioni del Governo, forte del suo mandato elettorale. E se il presidente del la Repubblica facesse qualcosa di analogo in nome dell’unità nazionale? E se poi si arrivasse all’investitura elettorale diretta del presidente stesso, in questo quadro di garanzie scricchiolanti? Per non parlare, poi, della cultura che può essere messa in riga facilmente e tacitamente, togliendo finanziamenti o orientandoli dove si vuole. Per ora abbiamo sintomi, conati. Ne abbiamo già visti in passato. Con una espressione generica, troppo generica, sono stati riassunti nella parola “populismo”. Diciamo, per ora, sindrome d’onnipotenza condita da rozzo nazionalismo, intolleranza, linguaggio e simbologia varia: tutte cose che contraddicono un percorso che si aprì con la fine del fascismo e l’avvio della democrazia, facendo intravedere un mondo ricco di speranza per un futuro sognato e consegnato alle parole della Costituzione.
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