lunedì 28 febbraio 2022

Gran bel pezzo

 


La guerra oltre ai corpi violenta pensieri e parole
Serve la ribellione del linguaggio - Il poeta russo Lev Rubinštejn “E la guerra che si sta svolgendo in Ucraina non viene nemmeno chiamata guerra. La definiscono solo operazione militare”
DI TOMASO MONTANARI
“Quella matrona lugubre, vestita di nero e col velo stracciato e spogliata dalle sue gioie e d’ogni sorte d’ornamenti, è l’infelice Europa: la quale già per tanti anni soffre le rapine, gli oltraggi e le miserie, che sono tanto notorie ad ognuno che non occorre specificarle”: così Peter Paul Rubens descrive uno dei passaggi più commoventi delle Conseguenze della guerra, questo suo capolavoro conservato a Firenze. Egli lo dipinse (tra il 1636 e il 1637) per un collega pittore, il suo concittadino Justus Suttermans, che viveva a Firenze ed era uno dei ritrattisti dei Medici. La lettera con cui Rubens accompagnò l’opera è una altissima denuncia della follia di ogni guerra: “…nel suolo giace rivolta una donna con un liuto rotto, che denota l’Armonia, la quale è incompatibile colla discordia della guerra; siccome ancora una madre con il bambino in braccio, dimostrando che la Fecondità, Generazione e Carità vengono traversate dalla guerra che corrompe e distrugge ogni cosa. Ci è di più un architetto sottosopra, colli suoi strumenti in mano, per dire che ciò che in tempo di pace vien fabbricato per la comodità e ornamento delle città si manda in ruina, e gettasi per terra per la violenza delle armi”.
Ancora una volta oggi l’infelice Europa è devastata dalla guerra: in un rosario secolare di barbarie e di denunce della barbarie. Picasso vide il quadro di Rubens durante il suo viaggio a Firenze nel 1917, in piena Grande Guerra: e venti anni dopo se ne ricordò dipingendo Guernica, esattamente tre secoli dopo che Rubens aveva finito la sua opera. E oggi? Oggi chi vedrà con questo lucido disincanto, e insieme con tanta partecipazione umana, i disastri di questa ennesima, disastrosa guerra europea?
Non certo i politici, no. Non i capi e i loro lacchè, il codazzo di giornalisti vocianti, non i sedicenti esperti geopolitici, non i militari smessi e le spie in carriera: triste corte televisiva di queste sere tetre. Perfino Enrico Letta ha scritto che il Pd vuole che l’Italia sostenga l’Ucraina con un “aiuto militare concreto”. Così, letteralmente: tutti pronti a fare la guerra dal divano. Come se non ci fosse una Costituzione che ripudia la guerra. Come se a morire non fossero altri, ben distinti da quelli che la guerra la decidono: “il potere di aprire e far cessare le ostilità è esclusivamente nelle mani di coloro che non si battono”, ha scritto Simone Weil.
E, allora, le uniche voci che davvero possono dire qualcosa in queste ore sono quelle di chi digiuna e cammina, come il papa: sempre più un gigante tra i nani. O quelle appunto degli artisti, degli studiosi, dei poeti. E soprattutto di quelli che – dentro ciascuna delle nazioni in guerra – si oppone alla guerra, la contesta, la denuncia, spesso a costo della vita stessa. Per questo sono apparse così toccanti le parole di Lev Rubinštejn, poeta russo settantacinquenne che dalla sua casa di Mosca, giovedì scorso, all’inizio dell’invasione, ha scritto su Facebook, tra le altre, queste righe: “La popolazione del paese è sempre stata divisa in due parti disuguali. Una parte, sempre minoritaria, si ostinava a chiamare meschinità la meschinità, codardia la codardia, stupidità la stupidità e fascismo il fascismo. L’altra parte, quella maggiore, soggetta all’influenza della retorica ufficiale, chiamava la meschinità patriottismo, la codardia – la necessità di fare i conti con le circostanze, e il desiderio di libertà e apertura espresso dai popoli e dalle società – nazismo. E questa guerra, una guerra linguistica, una guerra sui significati delle parole e dei concetti, era e rimane la principale e interminabile guerra civile. E quella guerra che si sta svolgendo in Ucraina, sotto gli occhi del mondo, non viene nemmeno chiamata guerra. La chiamano ‘operazione militare’. Ma è una vera e autentica guerra. E deve essere fermata. Come? In qualche modo, ma è necessario. Tutti noi, insieme e individualmente, dobbiamo pensarci” (traduzione di Martina Napolitano).
Pensare alle parole con cui dire la verità sulla guerra: proprio come Rubens pensava alle pennellate con cui smascherarla. In queste ore ci sentiamo dire che dovremmo difendere i valori e gli interessi occidentali. Ma quali sono questi valori: quelli scritti nelle Costituzioni o quelli perseguiti dai governi? E di chi sono questi interessi? “L’interesse nazionale – ha scritto ancora Weil – non può essere definito né da un interesse comune delle grandi imprese industriali, né dalla vita, dalla libertà e dal benessere dei cittadini, perché questo interesse comune non esiste”. È dunque nel dissenso interno, nelle ragioni del conflitto sociale, nel rifiuto di ogni nazionalismo, nella difesa dei diritti che va cercata la forza per ripudiare l’idea stessa della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e come mezzo di costruzione del consenso interno ai singoli stati.
Oltre a violare i corpi, la guerra violenta i pensieri e le parole. Iniziamo a ribellarci da qui.

Nessun commento:

Posta un commento