martedì 25/08/2020
Quel padrone di Bonomi pretende anche amore
di Daniela Ranieri
Si torna dalle ferie e si respira quel clima di unità e solidarietà nazionale auspicato dal presidente Mattarella. Riassumiamo per i lettori l’intervista al capo di Confindustria Bonomi somministrataci ieri da La Stampa per rischiarare i cieli neri della crisi pandemica nel solco di quel monito ecumenico. Le quasi due paginone di randellate passivo-aggressive è una Summa Theologiae del pensiero confindustriale. I personaggi sono ritratti con pennellate nette, da fiaba di Esopo: ci sono i buoni (gli industriali e Mario Draghi) e i cattivi (il governo; il presidente dell’Inps Tridico; chiunque provi sentimenti anti-industriali). Questo perché c’è troppo “pregiudizio ideologico anti-industriale”, del tutto ingiustificato alla radice del fatto che la crisi sarà “irreversibile” e si perderanno “un milione di posti di lavoro”. Se questa può sembrare una minaccia (se ci imponete il blocco dei licenziamenti fino a settembre e lo smartworking senza contropartite, noi in autunno cominceremo a licenziare), in realtà Bonomi lamenta che i cattivi sono inetti: prova ne è che ad agosto (il mese del decreto agosto) Confindustria si ammazzava di lavoro mentre “la politica se n’è andata in ferie”: “Quel minimo di ripresa l’abbiamo generata noi imprenditori. Ci siamo rimboccati le maniche, come sempre. Noi ci siamo messi al lavoro…”. Vecchia storia: a garantire il fatturato non sono i lavoratori, costretti spesso a lavorare in precarie condizioni di sicurezza e in nero, prendendo solo una percentuale dello stipendio da aziende che hanno finto la Cassa Integrazione razziando soldi pubblici (234 mila secondo Tridico), ma i padroni in persona.
Finiti i tempi in cui dettavano le riforme ai governi e paventavano sciagure in caso di bocciatura popolare del referendum di Renzi (a proposito: non è che il Pil e l’occupazione scendono perché ha vinto il No?), i padroni hanno la loro testa d’ariete in questo signore che parla fuori dai denti, tanto da accusare il governo di “fare più danni del Covid”, in linea peraltro con la prestigiosa scuola di pensiero di Briatore. L’errore è nell’attuale assetto di aiuti: “Dobbiamo ragionare tutti insieme su una graduale exit strategy dall’economia assistita, e su un nuovo sistema di protezione sociale”. Occorre tradurre? Vogliono una più equa distribuzione delle risorse, dai poveracci alle aziende, dalle partite Iva in difficoltà ai “datori” di lavoro, dai disoccupati agli imprenditori. La crisi inedita che ha colpito l’intero pianeta ha un’unica soluzione, antica e collaudata: quando le aziende fanno utili, i soldi li intascano i padroni; quando le aziende perdono, anche in congiunture funeste come questa, paga lo Stato, quindi noi. È talmente primitiva, come strategia, che per non sembrare ingenui spostiamo la domanda: ma Confindustria, che non riesce a gestire nemmeno i conti del suo giornale, le cui perdite, qualcosa come 360 milioni in 10 anni, venivano occultate nel bilancio, a quale titolo fa la morale ai politici?
Se nella sostanza e nelle forme il padronato è rimasto uguale a cent’anni fa, retrocedendo anzi rispetto al tempo delle conquiste sindacali grazie al lavoro di solerti politici collaborazionisti (Jobs Act, abolizione dell’art. 18, contrattini a ore, voucher, etc.), a livello antropologico c’è stato un cambiamento epocale. Rivelatoria ne è l’ultima struggente frase che Bonomi consegna a La Stampa - che inspiegabilmente perde il 22,3% delle copie, in ciò non aiutata da Bonomi stesso, che ieri ha pubblicato l’intera intervista “in chiaro” sul suo profilo Twitter: “Noi imprenditori amiamo profondamente il nostro Paese: vorremmo solo essere ricambiati con lo stesso amore” (dev’essere questo il motivo per cui preferiscono delocalizzare e trasferire la sede fiscale in altri Paesi: carenza d’affetto).
Ecco l’antropologia: ai padroni di oggi non basta essere temuti, non gli basta comandare: vogliono essere amati. Come non avessero già abbastanza difensori, organi di stampa, lobbisti in Parlamento, gruppi di interesse e una bella scorta di malati di Sindrome di Stoccolma che salterebbero nel fuoco per loro. Le critiche sono “pregiudizi ideologici”. Se lo Stato dà soldi ai nullatenenti o ai pocotenenti, è assistenzialismo. Se li dà a loro, è exit strategy. Dicono di amare il popolo, ma detestano i suoi rappresentanti, soprattutto quando fanno qualcosa a favore del popolo. A scapito della loro fortuna di censo sono petulanti, scontenti degli effetti impopolari della loro forza economica (“Noi non siamo Poteri Forti”, dice Carlo); non hanno abbastanza polso per l’autonomia, quella lucente indipendenza che contempla la possibilità di essere detestati e malgrado questo proseguire verso la gloria, l’innovazione o almeno l’onesto lavoro. È una forma di impotenza, quell’impotenza dell’onnipotenza d’altra parte così comune presso un certo tipo di potenti complessati.
Nessun commento:
Posta un commento