venerdì 12 giugno 2020

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venerdì 12/06/2020
LA STORIA E LE SUE FONTI
Senza futuro non c’è memoria
L’ESEMPIO DELLE FOIBE - IN QUELLA VICENDA LE FALSIFICAZIONI VIVONO ANCORA. MA STUDIARE LA STORIA SERVE A NON FORNIRE UNA FALSA TESTIMONIANZA. PER QUESTO LA SCUOLA VA TENUTA LIBERA E INDIPENDENTE

di Chiara Frugoni

Perché studiare la storia? Nel 1967 il dottor Stephenson chiuse in una gabbia, al cui soffitto era appesa una banana, 5 scimmie; sotto la banana, una scala. La scimmia che provò a salire la scala per afferrare il frutto fu “punita” con un getto d’acqua ghiacciata; e insieme furono colpite anche le altre scimmie, restate a terra. E ogni volta che una si avvicinava alla scala, i getti d’acqua colpivano tutte le scimmie.

Quando Stephenson si accorse che tutte avevano imparato la “lezione”, sostituì una scimmia con un’altra all’oscuro delle dinamiche della gabbia. Il primate naturalmente tentò più volte di raggiungere la banana, ma le altre la bloccarono sempre, prima che il getto d’acqua punitivo la colpisse. La scimmia così desistette dal suo proposito. Via via tutte le scimmie furono sostituite, fino a che in gabbia vi furono solo bestie mai annaffiate, consapevoli del divieto ma senza saperne il motivo. Ecco perché studiare la storia, si potrebbe concludere: per non finire come le scimmie di questo esperimento. Giusto, no?

Ma se controlliamo le fonti di questo esperimento, vediamo che non fu come lo si racconta: non ci fu nessuna scala e nessuna banana, i getti erano d’aria e non d’acqua, le scimmie venivano addestrate a non manipolare un oggetto (non una banana) singolarmente, e poi veniva introdotto un animale ignaro dei getti d’aria, procedendo a coppie dello stesso sesso. Lasciamo perdere i discorsi sulla validità o meno dell’esperimento: in ogni caso, la sua fama ci insegna l’importanza di controllare le fonti storiche, e di non dare patenti di verità a quel che si trova in giro perché funzionale al nostro pensiero. È vero, si deve studiare la storia, ma anche stare attenti alla sua falsificazione.

Un esempio lampante, che per troppi lampante non è, riguarda il caso delle foibe, perché si tratta di evitare falsi storici (interessati, ma resistentissimi). Secondo l’Enciclopedia Treccani “le foibe vennero largamente utilizzate durante la Seconda guerra mondiale e nel dopoguerra per liberarsi dei corpi di coloro che erano caduti a causa degli scontri tra nazifascisti e partigiani, e soprattutto occultare le vittime delle ondate di violenza di massa scatenate a due riprese […] da parte del movimento di liberazione sloveno e delle strutture del nuovo Stato jugoslavo creato da Tito”. La destra, in Italia, si è gettata di slancio sul tema, con una doppia equazione basata su una matematica valoriale assai creativa quanto ingannevole e interessata: 1) i partigiani jugoslavi che hanno ucciso gli italiani (fascisti e civili) sono innanzitutto partigiani = i partigiani italiani hanno anche commesso stragi di civili italiani e 2) i fascisti hanno commesso crimini ma anche i partigiani lo hanno fatto = crimini fascisti e crimini partigiani sono equiparabili. L’immagine più famosa che accompagna i pezzi sui giornali nell’anniversario delle vittime delle foibe offre cinque fucilati di schiena che attendono la scarica che li ucciderà.

Foto di grande effetto ma che ritrae invece l’uccisione di cinque ostaggi sloveni da parte delle truppe italiane durante l’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943). Studiare la storia serve anche a questo: a non dare falsa testimonianza.

Dico cose scontate se ricordo che la fine del lavoro in fabbrica, di un lavoro in cui si sta uniti e ci si può confrontare, la sopravvenuta flessibilità e la precarietà del lavoro, la caduta delle grandi ideologie hanno portato a una perdita anche degli ideali che le avevano generate, a un grande individualismo, in cui – penso ai giovani – si lotta per poter lavorare, sempre in cerca di un contratto che scade. Questa vita così instabile ha come ricaduta l’impossibilità di fare progetti, nella propria vita privata e nella vita collettiva.

Perfino il volontariato o l’impegno più serio di una parte cattolica si riduce a lenire, a riparare, ma non a costruire, a proiettarsi in un futuro migliore. Tutto questo produce un’altra conseguenza che rovescia paradossalmente l’adagio dei miei tempi: “Senza memoria non c’è futuro”. Credo che si debba dire che “senza futuro non c’è memoria”, perché la necessità del sopravvivere, l’impossibilità di programmare, il dovere di vivere ognuno per sé, hanno atrofizzato il senso di una continuità con le persone che ci hanno preceduto e tolto necessariamente al passato la sua spinta ideale e modellizzante, il senso che essere uomini e donne significhi essere eredi, eredi consapevoli del passato.

A tale situazione difficile hanno dato un potente aiuto – in senso negativo – le riforme scolastiche che si sono susseguite da Berlinguer a oggi. Son sempre più messe in secondo piano le Antichità greca e romana, sempre più si sente dire come siano per pochi e quasi inutili la conoscenza del greco e del latino, per non parlare del Medioevo, anzi, dei “secoli bui” del Medioevo (anche se il vero buio è di chi li chiama così, evidentemente non conoscendoli), con una scuola ridotta a un ruolo ancillare dell’impresa (basti dire “la scuola lavoro”!), prontissima a formare manodopera a basso costo. La scuola non è più il ruolo della cultura ma dell’impresa: un termine che mostra l’abisso di incultura o il cinismo di chi l’ha formulato. I frutti avvelenati già si vedono: i ragazzi del ricco Nord-Est che hanno lasciato la scuola per un immediato guadagno sono in difficoltà con il lavoro, perché si trovano in concorrenza con la mano d’opera più a buon mercato degli immigrati, non sapendo progettare, ma solo “stare al pezzo”. Le persone qualificate invece, trovando difficilmente lavoro in un’Italia sempre più incapace di programmare il proprio futuro, in molti casi prendono la via dell’estero (più che del “problema” dell’immigrazione, si dovrebbe infatti parlare di quello dell’“emigrazione” dei nostri giovani, dopo aver studiato).

Le varie riforme della scuola tendono anche a privare gli studenti dello studio del passato per renderli incapaci di riflettere e di capire. Indebolire lo studio della storia, della sua importanza, non equivale forse a pensare che la civiltà si possa trasmettere senza rapporto di filiazione, che si possa spezzettare il tempo e lo spazio in isole artificiali, privi di collegamenti e di vista d’insieme? Ma Venezia non sarebbe stata Venezia se non fosse stata un arcipelago. In Italia, le città mostrano ognuna la propria storia ben visibile in palazzi, piazze, monumenti, chiese (e poi nei musei), traboccando di riferimenti del passato e opere d’arte. Renderne problematica, acritica, la comprensione vuol dire condannare i nostri giovani all’apatia, alla mancanza di curiosità intellettuale, modificare, in senso negativo, il modo di percepire la realtà. Senza un legame consapevole e attivo verso il proprio passato, la storia diventa voce muta, lo spessore della vita umana si assottiglia, come se l’umanità non avesse mai imparato a scrivere ma si limitasse a ripetere, una generazione dopo l’altra, mirabili atti senza memoria, senza consapevolezza di sé rispetto agli altri, di sé, rispetto ai compagni che l’hanno preceduto e lo seguiranno.

 

Da Chiara Frugoni, “Come e perché studiare la storia” in Arsenio Frugoni, “La storia coscienza di civiltà”, con uno scritto di Chiara Frugoni, Brescia, Scholé, 2020, figure 14, euro 10.

 

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