domenica 21 giugno 2020

Un ottimo Serra


Alex tira fuori il meglio di noi


di Michele Serra


Intorno ad Alex Zanardi, aggrappato alla vita, c’è tutta Italia che lo sostiene. È un sostegno strameritato, non bastasse il coraggio da eroe omerico, Zanardi ha messo in campo, nella sua seconda vita, una leggerezza strepitosa perché fosse ben chiaro che non voleva far pesare a nessuno le sue tribolazioni. Menomato e vittorioso, menomato e spiritoso, unico nella sua straordinaria parabola eppure fratello di tutti.
Di più che cosa si può dare agli altri? È così perfetto, Zanardi, come oggetto di amicizia e di ammirazione, che viene il sospetto che volergli bene sia troppo facile, troppo inevitabile. Il popolo che lo abbraccia, e maledice la sua sfortuna, è anche lo stesso popolo che arpiona, nella tonnara dei social, qualunque debolezza; che ha inventato e adopera con gusto, in segno di scherno per ogni moto di solidarietà, la parola "buonismo"; che nelle varie piazze televisive usa l’insofferenza e il malumore (le due qualità meno zanardiane al mondo) come modalità quasi fissa; un popolo la cui proiezione politica è tra le più lacerate e aggressive d’Europa, come se stare in società significasse soprattutto disprezzarsi, e desiderare l’annientamento altrui.
Poi questo popolo — vedi i giorni della pandemia — manifesta improvvisi, travolgenti sentimenti di unità e di solidarietà. Si sente buono senza sospettare buonismi, ha il ciglio umido senza temere retorica, canta volentieri lo stesso Inno che il giorno prima gli pareva una marcetta strombettante, ostenta italianità dopo averla deprecata per una vita, si raduna al capezzale di una persona bella e sfortunata senza farsi domande sugli altri partecipanti, che sono milioni e tutti molto diversi, ma resi tutti uguali dalla trepidazione per l’amico Alex. È come se una routine depressa, e abbastanza cinica, trovasse momenti di vigoroso e necessario rimedio, nei quali i buoni sentimenti, e addirittura l’incredibile sentimento della concordia, possono finalmente sboccare con naturalezza. La morte in agguato (quella da virus e quella che prova a ghermire per la seconda volta un uomo pubblico molto amato) fa da catalizzatore, il pericolo rinserra i ranghi, si torna a sentirsi popolo non nel senso, meschino e limitato, della propria fazione politica, ma in quello, più pieno e nobile, di un destino comune.
Certo se i due vasi non comunicanti della psicologia pubblica italiana, quello della quotidianità sciatta, quello dell’emergenza eroica, fossero un po’ meno separati, non sarebbe male. Se solo un decimo dell’emozione pro-Zanardi restasse poi in circolo anche per necessità più convenzionali, diciamo per la gestione ordinaria dei rapporti tra italiani, e dunque fossero anche i piccoli sentimenti, le piccole occasioni di rispetto e di cura a poter contare su di noi. Se per sentirsi italiani, con la minuscola, non ci fosse bisogno di avere le Frecce Tricolori che passano sopra il tetto, o il tenore che canta il Nessun dorma (non se ne può più, tra l’altro, lo stesso Puccini supplica di sospendere almeno qualche replica), o il campione esemplare, l’amico di tutti, che giace esanime e intubato. E se dunque bastasse la ragionevole, non emotiva, non retorica cognizione che siamo italiani semplicemente perché abitiamo qui, non perché una minaccia o un dramma ci costringe a esserlo; beh, sarebbe bello. Vorrebbe dire cominciare a trovare l’unica cosa che davvero ci manca, come popolo, che è la misura. Le nostre vele o si gonfiano per tempeste emotive, oppure si afflosciano miseramente. Ma i venti di media portata sono i migliori per navigare, e per arrivare primi, come Zanardi insegna, l’allenamento quotidiano è la sola via.

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