giovedì 28 giugno 2018

Riflessioni


La mattina in cui ho perso la fede
TEJU COLE

Intorno ai venticinque anni mi successe una cosa strana: mi trovavo di fronte a paradossi teologici che non riuscivo risolvere. Avevo studiato la religione così a fondo che non vedevo come fare progressi.
Come capire se la Bibbia era davvero l’unica verità dell’esistenza? Certo, lo diceva la Bibbia, ma come potevamo sapere se la Bibbia diceva la verità? Sempre perché lo diceva la Bibbia. Ogni riflessione mi riportava allo stesso punto. E così la questione divenne capire se la Bibbia dimostrava in qualche modo di essere diversa dai testi sacri di altre religioni, o se, come loro, era scritta da esseri umani, messa insieme da essere umani e usata nei secoli per scopi umani. Nel 1721 Jonathan Swift aveva scritto: “Il ragionare non farà mai correggere a un uomo un’opinione sbagliata che non ha acquisito ragionando”. In altre parole, non si possono smantellare con la forza della ragione le posizioni adottate grazie alle emozioni, e la mia fede cristiana era senza dubbio emotiva. Ma Swift, perlomeno nel mio caso, si sbagliava.
Analizzai razionalmente gli assunti su cui avevo basato la mia vita, e che non avevo adottato secondo la logica, e scoprii che non reggevano. Non furono giorni facili per me.
Senza Dio, come potevo dare significato alla vita? La frase di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov era un monito potente, non una promessa di libertà: “Se Dio non esiste, tutto è permesso”. Non volevo che tutto fosse permesso. Temevo l’abisso. Ma continuai a ragionare. Poi un mattino, a ventisette anni, mi svegliai e scoprii di aver perso la fede.
Immaginiamo di pensare che gli omosessuali andranno all’inferno. Che i musulmani andranno all’inferno. E anche i cattolici, gli induisti, i buddisti, gli atei. Immaginiamo una concezione così ristretta del destino umano che chiunque non condivida il nostro credo è condannato. E così, anche se l’ultima cosa che avevo provato prima di perdere la fede era la paura, la prima emozione subito dopo fu il sollievo. Sollievo all’idea di non dover essere più crudele e limitato! In inglese, “losing it”, è sinonimo di impazzire, perdere la testa. Ma io avevo perso la fede, e trovato la ragione. Ero impazzito in un certo senso, ma poi ero diventato più lucido. Scoprii una lucidità mentale su cui poter costruire un’etica nuova, radicalmente inclusiva. Persi il senso della certezza e trovai quello del dubbio. È vero che mi considero ateo, ma per me non si tratta di una definizione rigida. Mi pare più vicina alle parole di Simone Weil: “L’ateo può essere semplicemente chi concentra la fede e l’amore sugli aspetti impersonali di Dio”.
Non avevo davvero abbandonato tutti gli dèi, solo i più vecchi e patriarcali, quindi il mio essere ateo era in realtà una sorta di politeismo. I nuovi dèi, o meglio, quelli di cui ero appena diventato consapevole, non avevano i nomi o le fattezze classiche. Scetticismo, dubbio, libertà, poesia, musica, giardini, natura, narrazioni, amore, amicizia: questi erano diventati i miei dèi. Non erano potenti, e non promettevano il paradiso, anzi, non promettevano niente, ma in una serata incerta potevano darmi compagnia e conforto. Quelle consolazioni terrestri non rappresentavano delle garanzie, ma erano immediate e reali, imprevedibili e temporanee, e vi si poteva attingere senza fare violenza sulla vita degli altri.
Per anni ormai, ho avuto solo i miei dubbi per orientarmi nella vita. Ma anche i dubbi vanno tenuti sotto controllo perché non diventino totalitari.
Convivere con il dubbio non significa abbandonare ogni valore. Le posizioni forti si possono prendere e vanno prese in situazioni contingenti. I dubbi mi permettono, ad esempio, di oppormi al totalitarismo e al militarismo senza diventare pedante, e di poter riconoscere come è facile sostituire una forma di certezza con un’altra.
Penso spesso a queste parole di Simone Weil (ancora lei): “Il nemico capitale rimane l’apparato amministrativo, poliziesco e militare, qualunque sia il nome di cui si fregi... Il peggior tradimento possibile, in qualsiasi circostanza, consiste sempre nell’accettare di sottostare a questo apparato e di calpestare in se stessi e negli altri, per servirlo, tutti i valori umani”. Weil sapeva fin troppo bene che le strutture repressive sono presenti a prescindere dalla propria posizione politica e che l’etica si fonda sul rifiuto di sottomettersi a qualsiasi struttura rigida, sul rifiuto di perdere di vista il nostro senso comune dell’umanità.
E nel suo saggio del 1964, La responsabilità personale sotto la dittatura, Hannah Arendt aveva intuito qualcosa di simile.
Riflettendo sul collasso morale della società rispettabile durante il regime di Hitler, scrisse: “in tali circostanze, coloro che hanno cari i valori etici e ci tengono alle norme e agli standard morali non sono gente affidabile: sappiamo ormai che tali norme e standard possono cambiare dal mattino alla sera e che tutto ciò che resta, allora, è solo il fatto di tenersi aggrappati a qualche cosa. Molto più affidabili, in casi come questi, si rivelano i dubbiosi e gli scettici, non perché il dubbio o lo scetticismo siano un bene in sé, ma perché grazie a essi ci abituiamo a esaminare le cose e a farci una nostra idea in proposito”. Dover prendere costantemente decisioni può spaventare, e spaventa soprattutto chi dà valore a parole come “rivoluzione”, “tolleranza zero” e così via. Ma dopo due battesimi non mi fido più di queste rivoluzioni che promettono il paradiso. Non ho bisogno di unirmi a un gruppo, un culto una religione. Non ho bisogno di sottostare all’apparato. E la bellezza di tutto questo è che condivido il mio approccio con molti altri, anche con chi è nominalmente associato a una religione o a un sistema di credenze. Ci accomuna una fondamentale lealtà al dubbio produttivo più che alle stridenti dichiarazioni di fede. Non siamo sicuri.
Abbiamo perso la fede e la testa.

Non troviamo certezze. Amiamo e dubitiamo.

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