Aveva macchiato per l’ennesima volta la fu intonsa camicia,
stirata con devozione dalla cara mamma anziana. Pur essendo particolarmente
solitario, nella sera di quel giorno maledetto, o benedetto a seconda del punto
di vista, sarebbe dovuto andare a cena con un’amica, l’unica che ancora lo
reggeva psicologicamente.
Anni avanzati come piatti lasciati a mosche su un lavello
indegno; da quando si era separato, non era più stato brioso e, per il solo fatto che avvertisse
questo cambiamento, lui che mai in vita sua aveva ceduto di un millimetro, confermava
a sé stesso la perdita delle prerogative che gli permettevano, un tempo, di
essere ammirato e ricercato nella sfera di amicizie: una cena, una serata in
qualche bel locale, una corsa in moto sulla spiaggia attendendo l’alba, tutte
occasioni speciali nelle quali gli altri vi partecipavano dietro condizione, la
certezza della sua presenza.
Ogni qualvolta l’ansia, i dubbi, l’apatia gli si sedevano
innanzi, lasciava quella realtà divenuta amara per entrare nel mondo fatato,
edulcorato, innaffiato di cui aveva da sempre le chiavi aprenti e
depressurizzanti la crescente inappetenza ai colori del presente. Ecco che
riapparivano quasi intonsi la soggiacente filmografia dei tempi eroici, dei
topici abbracci con la salinità effervescente che ogni individuo ansima a
gustare, mercificandola. Apparivano allora visi di fate, lucentezze di corpi
trasudanti sensualità, scorribande senza meta, fluorescenze capziose, urticanti
spasmi in pectore, riprendenti pian piano vigore, mentre particolari
insignificanti si trasformavano via via in pietre miliari.
S’interrogava spesso sulla bontà di questo suo estraniarsi,
senza riuscire ad ottenere risposta. Spostava allora l’attenzione su problemi
creati per l’occasione, non volendo ascoltare null’altro dalla sua instabile e
perniciosa coscienza. A volte contava il tempo, liofilizzandolo per non
avvertirne il peso smodato, l’assenza di una scintilla in grado di farlo
galoppare, roteando le lancette in un ballo frenetico come la sua vita di
allora. Se al posto del cellulare avesse avuto un ferro da stiro nulla sarebbe
cambiato in tasca, a parte la differenza di peso. Era uscito dal giro, era
emigrato in lande oscure, al declivio tra la pazzia controllata di chi vede scolorirsi
tutto attorno a sé, e una malsana, ma appunto salubre, voglia di riscatto, di
rivincita, di nuova scalata dei ceti sociali, caste velate ed immarcescibili,
luoghi di iraconde battaglie, dettate e agognate mediante il denaro, la
disponibilità di risorse che obnubila qualsiasi altro sentimento; tanto era
imbruttito che non riusciva più a possedere potere monetario, scialacquato alla
grande nei tempi d’oro. Era da molto che non frequentava i templi moderni quali
aeroporti, autogrill, centri commerciali, dove la fretta insana e bugiarda
attanagliante individui socialmente abiurati alla, se esiste, normalità, e
dediti ad una recita recalcitrante intelletto, rettitudine di spirito,
concertazione di sentimenti ineludibili per una conduzione sociale, se esiste,
normale, sostituita dall’ipnotica simulazione tendente a mascherare l’assenza
di sé attraverso un ritmo estremo di gozzoviglie, voracemente bruciate all’altare
della dea Ostenta, mascherante il deserto dell’animo con una vorticosità
composta da suonerie impazzite, vacui dialoghi attorno al totem Visibilia,
matrigna voluttuosa, gelosa, esigente un’esteriorità estrema fondata su sabbie
mobili, su palafitte nebbiose, su gelsi rinsecchiti nel gelo, accelerante
calendari, sminuzzante stabilità, concetti, posizionamenti reali nello spazio
infinito ma pur sempre ristretto, allontanante alti e temibili concetti quali
morte, sofferenza, sensoriali percezioni del, ammesso che esista, reale,
confinamento dell’io nel degno recinto costellato da lupi famelici pronti a
sbranare l’ineluttabilità della fine del proprio mondo, della scomposizione
degli atomi sfuggenti e desiderosi un giorno di tornare a formare stelle e
pianeti, immoti ma saldi, silenziosi ed inutili ma reali, quasi che possa
essere condanna il coabitare dentro un vivente capace di alterare la, ammesso
che esista, realtà del gioco preparato da sempre, nel sempre, per sempre.
Si sentiva emarginato, l’ardore per tornare laggiù,
perché è del laggiù che si parla, lo affascinava oltremodo, tendendo a riorganizzare
una mente recalcitrante, il suo cuore affannato, le sue membra abusate. E
quella malinconia nel contempo lo affascinava, vi era qualcosa di strano, d’impalpabile,
mistero emergente, ospite inaspettato, balbettio umorale squassante quel poco
di ancora vivo, di flebile bagliore che a tratti intravedeva, quasi squassato.
Che quest’onta, questo precipizio vissuto, questa grotta mal
illuminata divenisse attraente? Può il nero affascinare, il buio silente
invaghire?
Come detto rallentava lo spazio tempo attorno a lui, la
dilatazione del giorno giganteggiava: ore trasformate in secoli come una strada
desertica in un altopiano inesplorato, attraversato tra il rombo di un cuore
che mai ascoltò, di un brusio sconcertante generato dal silenzio, il fragore
del Sé!
“Ma parlo!”, si disse nell’attimo scoperchiante il paonazzo,
per mancanza di ossigeno, nocciolo d’oro, tralasciato inspiegabilmente da
lustri. Avvertì una mancanza da stordimento, s’affannò a dubitare, perché il
dio Dubito fulmineamente tentò di velare, obnubilare il vagito dell’Essenza. Una
concatenazione di eventi, un frullato di disattenzioni aveva smascherato l’arcano,
il fulcro, il fuoco. S’incontrò con sé stesso, ebbe la fortuna di conoscersi,
di familiarizzare, confabulare, discettare, pianificare, facendo confluire
sensazioni misteriose, allocate chissà dove e da quanto; vide il vagito della
reazione a catena, srotolante il Vero. Attorno a lui ogni altro espediente
svanì, la missione stordente s’affievolì, le grandi praterie, i percorsi
scoscesi incredibilmente appetibili gli si pararono davanti. Per la prima
volta, straordinariamente, si trovo solo, solo con sé stesso. E fu sera e fu
mattina. Secondo giorno.
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