Al di là che il respingimento di una nave sia inumano, che ne pensano i Paraventisti di come in certe zone, DA MOLTI ANNI, trattiamo il migrante e di come questo schiavismo sia utile alle grandi catene di distribuzioni alimentari?
venerdì 15/06/2018
CAPORALATO
“Ehi, Venerdì”. Gli schiavi privati pure del nome
TRAPANI - BRACCIANTI, COSTRETTI A DIRE “PADRONE” AI CAPORALI, CHIAMATI COME I GIORNI DELLA SETTIMANA
di Enrico Fierro
Tuguri - Le immagini diffuse dalla squadra mobile di Trapani -
Avevano perso tutto perché tutto gli era stato rubato. La libertà, le loro braccia, finanche il loro nome. Perché erano schiavi. Schiavi nell’Italia feroce di questi anni. Succede in Sicilia (ma anche in Puglia, Calabria, nelle regioni agricole del Nord opulento), nelle campagne tra Marsala e Mazara del Vallo. Qui, dopo sei mesi di indagini, la Squadra Mobile di Trapani ha scoperto due moderni schiavisti.
Padre e figlio. Andavano a prelevare i braccianti neri nelle baraccopoli e li compravano: 3 euro l’ora per otto-dieci-dodici ore di lavoro al giorno. La paga, però, scendeva quando il caporale metteva a disposizione la “mangiarìa”. Non avevano nulla i braccianti di colore. Solo le loro braccia. La voce no, quella gli era negata, per chi protestava niente lavoro. Al caporale, i neri si dovevano rivolgere con deferenza. Dovevano appellarlo “padrone”. E lui, il padrone-caporale, che proprio quei nomi strani dei “nivuri” non riusciva a ricordarseli, li chiamava come i giorni della settimana. Lunedì, martedì… fino a venerdì. Ma non è un romanzo per bambini. È la Sicilia di oggi, quella dell’agricoltura fiorente, quella della frutta che arriva nelle catene dei grandi supermarket e rimbalza sulle nostre tavole di italiani allarmati dall’ “invasione” degli stranieri. Sei mesi di indagini, l’arresto dei due moderni schiavisti (ora ai domiciliari) il sequestro dei terreni. E lo squallore. Le immagini delle telecamere piazzate nei terreni dei due dalla Polizia (pubblicate da ilfattoquotidiano.it) valgono più di mille saggi sullo sfruttamento.
Il caporale scende dalla macchina, ha appena scaricato i ragazzi di colore. Un lavoratore gli chiede conto della paga: “Tu padrone… pagare”. L’uomo bianco è palesemente infastidito: “Con mangiare io dare 3 euro per nove ore… 30 euro, va bene? Oggi 6 ore, sei per tre fanno 20 euro. 30 euro e mangiarìa… panino”. Il lavoratore cerca di contrattare: “Panino non buono, non l’abbiamo mangiato oggi. Troppo duro”. La pazienza del caporale è al limite e minaccia di non andare più a Campobello a prendere altri braccianti. “Bordello, soldi, sempre bordello”. Quattro soldi per spaccarsi la schiena nelle campagne sotto il sole siciliano e un pezzo di pane raffermo per cena. E materassi lerci per dormire. Le immagini registrate dai poliziotti sono quelle già viste nella baraccopoli di San Ferdinando, in Calabria.
Un locale senza porte, la terra battuta come pavimento, un angolo da usare come cesso, vecchie biciclette malandate e una cucina lercia dove prepararsi da mangiare. In un pizzo rivolto verso la Mecca, un tappeto per pregare.
È il caporalato, bellezza. Un business che insieme agli interessi mafiosi sull’agricoltura, muove qualcosa come 17,5 miliardi di euro, secondo il rapporto “Agromafie e caporalato” della Flai-Cgil. Condizioni di vulnerabilità, quando non è vera e propria schiavitù, che coinvolgono 100 mila lavoratori. C’è una legge del 2016 per contrastare il caporalato, la 199, che stabilisce sanzioni anche per il datore di lavoro che usa braccianti in nero e prevede la reclusione da 1 a 6 anni e multe da 500 a 1000 euro per ogni lavoratore impiegato. Una legge che non piace al vicepremier, ministro dell’Interno e segretario della Lega Matteo Salvini, “perché invece di semplificare complica”. Parole che hanno suscitato le proteste dei sindacati e delle associazioni che lavorano sul campo. “È una legge di civiltà – dice Fabio Ciconte, direttore dell’associazione Terra – occorre estendere ancora la responsabilità in solido delle imprese lungo la filiera, garantire trasparenza in ogni passaggio e scoraggiare le cause che determinano il caporalato”.
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