Basi blu, l’arsenale e Leonardo: il mare sacrificato alle armi
DI TOMMASO RODANO
La Spezia è una città di mare senza il mare. Il Golfo dei Poeti è stato trasformato in un golfo di pareti: il tessuto urbano è costruito per escludere lo sguardo dal suo orizzonte naturale. L’azzurro compare per un tratto breve, quando ci si affaccia su Viale Italia, dove la passeggiata costeggia il porto turistico, oppure bisogna andarlo a vedere dalla collina. Per il resto la costa è uno spazio vietato, una fila di recinti industriali e servitù militari: muri, cancelli, fili spinati, banchine interdette. Il mare è sequestrato per chilometri dall’Arsenale, poi il porto commerciale, i cantieri degli yacht di lusso, il centro di ricerca della Nato, quindi l’enorme Fincantieri. Pochi metri all’interno, un’altra recinzione: le fabbriche d’armi Oto Melara (oggi Leonardo) e Mbda.
Giorgio Pagano, una lunga militanza nel Pci e nel Pds, è stato sindaco dal 1997 al 2007. “La frattura più profonda tra città e mare – dice – è arrivata con l’Unità d’Italia e la costruzione dell’Arsenale nel 1869. Ci ha dato lavoro e crescita, ma ha trasformato l’identità culturale di La Spezia, ha seppellito vestigia storiche e pezzi di memoria”. In tempi di “guerra mondiale a pezzi”, le industrie militari vivono una nuova giovinezza. Oto Melara, la più importante, dal 1905 ha venduto armi ovunque: dalla A di Algeria alla V di Venezuela, inclusi Arabia Saudita, Egitto, Iran, Iraq, Israele, Turchia. Oggi è parte del gruppo Leonardo e ha annunciato una sinergia con i tedeschi di Rheinmetall per produrre due nuovi carri armati, il Main Battle Tank e il Lynx. Si promettono magnifiche sorti occupazionali: l’obiettivo è quota 1.500 dipendenti. La gemella Mbda dà lavoro ad altre 320 persone, Fincantieri invece ha 657 occupati diretti e migliaia nell’indotto (soprattutto stranieri dal Bangladesh). Completano l’elenco Ferretti, Baglietto, Intermarine, Star7, Officine Patrone. In totale sono 5.714 posti di lavoro, di cui 4.700 legati all’industria bellica (dati Weapon Watch, elaborati da Gianni Alioti e Carlo Tombola). La Spezia è anziana: un abitante su quattro ha più di 65 anni. Ha 94 mila abitanti, ma nella classifica delle armi è una metropoli: è la quinta provincia italiana per siti produttivi dell’industria militare (9); solo Roma, Milano, Torino e Napoli ne hanno di più.
È possibile immaginare un orizzonte che non sia legato alla produzione bellica? Pagano ci crede: “Abbiamo una lunga tradizione di resistenza operaia ai conflitti, Oto Melara si ribellò e sabotò l’occupazione nazista. Il bisogno di lavoro si mescola allo spirito critico e pacifista degli spezzini. Oggi siamo in un ciclo espansivo, ma in tempi di pace si producono meno armi e si perde occupazione: diversificare e riconvertire conviene anche a loro”.
La scelta che ha segnato il destino della città appartiene a Cavour, fu lui a volere l’Arsenale militare marittimo che ha cambiato i connotati al golfo: 90 ettari di superficie, 12 km di strade, 6,5 km di banchine, 1.400.000 metri quadrati di acque interne. Un’enclave dentro la città, di cui rimane un’ombra esile: dava lavoro a 12 mila persone, oggi solo 390 dipendenti statali. Il resto è in degrado: vasche e capannoni abbandonati, incuria e inquinamento. La crisi dell’Arsenale potrebbe essere un’occasione di rigenerazione urbana, ma la politica ha un altro piano. Si chiama “Basi Blu”: 354 milioni per costruire nuovi moli e dragare 400 mila metri cubi di fondali inquinati. Tutto per adeguare le basi agli standard Nato. Con un sottotesto: la vocazione militare di La Spezia non deve essere in discussione. William Domenichini è un attivista dei “Murati vivi” di Marola, il quartiere “ostaggio” delle mura dell’Arsenale. Ha scritto un libro, Il golfo ai poeti, che documenta lo scarto tra impatto e benefici del progetto: in Commissione Difesa, Basi Blu è stato approvato in cinque minuti, senza obiezioni. Terminati i lavori, non porterà aumenti stabili nell’occupazione. E poi c’è l’ambiente. Domenichini ci accompagna in collina e indica un grande lotto coperto da teloni scuri: “Quello è Campo in ferro. Era un bacino per stagionare il legno, diventato discarica militare. Ci hanno buttato robe di ogni tipo: componenti elettronici con sostanze radioattive, pale di elicottero, rifiuti generici. Sono tre ettari non bonificati, hanno messo i teli sopra e via”. Con Basi Blu saranno riattivati anche i serbatoi interrati sotto Varicella: 20.000 metri cubi di carburante militare nella pancia della collina, tra le fondamenta delle case. “Una bomba ambientale sotto un quartiere abitato”, dice William.
C’è una Spezia che resiste. Ogni lunedì, in piazza Europa, si ritrovano i militanti della rete Pace e Disarmo: un presidio a settimana dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Tra loro Giancarlo Saccani, ex operaio di Oto Melara. Nel 1981 disse basta: “Sono cresciuto con Gandhi e Capitini, non ne potevo più di fabbricare strumenti di morte”. Secondo lui la partita è tutta da giocare: “Per le fabbriche di armi ogni lungo periodo di pace è una minaccia economica, per questo la riconversione non è una bandiera ideologica, ma una necessità”. Giorgio Beretta, tra i più noti studiosi di armi in Italia, si è trasferito a La Spezia vent’anni fa: “Le maggiori industrie militari avrebbero gli strumenti tecnologici per riconvertirsi al civile”. Perché non lo fanno? “Non gli conviene. Dovrebbero competere in un mercato aperto, invece quello delle armi è tutelato dalle scelte politiche, il profitto è certo”. L’intreccio tra politica e armi ha un nome: “SeaFuture”, una fiera biennale che si svolge all’Arsenale. “Era nata per discutere di strategie marittime e ambiente – dice Beretta –, invece è diventata il salotto dell’industria militare. Ci si incontrano politici, lobbisti, funzionari. Costruiscono alleanze, finanziamenti e scelte”. Inaugurando l’ultima edizione, il 5 giugno 2023, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha promesso un colossale progetto da 1 miliardo per rilanciare l’Arsenale e blindare la vocazione militare della città.
Un rapporto viscerale. Lo racconta Denis Santini, da 41 anni operaio in Oto Melara e rappresentante sindacale Fiom. Una voce storica, in fabbrica è “il presidente”. “Per noi era ‘Mamma Oto’, c’è un senso di rispetto verso l’azienda e di conseguenza anche per ciò che produce. Le armi preferiamo chiamarle dispositivi di difesa: anche una forchetta può essere usata per mangiare o per uccidere. I rapporti sindacali sono buoni, il welfare aziendale funziona, la sicurezza sul lavoro è migliorata dagli anni in cui in tanti cadevano per i fumi respirati. Ed è difficile pensare di produrre altro: Oto Melara ha provato a fabbricare trattori e locomotive, ma non stava sul mercato”. Il vento sul Golfo dei Poeti soffia forte, sempre nella stessa direzione.
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