Non totalmente d’accordo ma triste, soprattutto sul presunto lifting levigante le rughe…
Bruce Springsteen, c’era una volta il Boss
di Gino Castaldo
Racconta barzellette su mariti che cornificano le mogli, nega di essere miliardario una volta pizzicato da Forbes che gli attribuisce un patrimonio di 1,1 miliardi di dollari, nega ogni responsabilità nella crescita incontrollata dei prezzi dei biglietti ai “suoi” concerti. Non sembrerebbe, ma stiamo parlando proprio di lui, di Bruce Springsteen.
È con grande difficoltà che scrivo questa confessione che, ne sono certo, mi porterà feroci critiche da parte della agguerritissima comunità springsteeniana di cui mi onoro di aver fatto parte. Di più, posso affermare con assoluta certezza che aver avuto il privilegio, come inviato di Repubblica, di seguire il Boss in ogni luogo del mondo – l’ho visto a New Orleans alla prima delle Seeger Session, l’ho visto in Sudafrica, nel Connecticut, davanti allo Slane Castle che sorge nei pressi di Dublino, l’ho visto in ogni città italiana, da solo e con la E Street Band – è stata una delle occasioni più esaltanti e gratificanti della mia carriera.
Non erano racconti come tutti gli altri. Quando finiva un concerto in Italia, c’era sempre qualcuno del pubblico che mi si avvicinava e con lo sguardo sognante mi stringeva le mani e mi diceva: mi raccomando, ora tocca a te, domani sul giornale vogliamo leggere quello che è successo qui, questa sera. E io scrivevo, con addosso l’adrenalina che mi dava questa sensazione unica di condivisione, di responsabilità collettiva. Solo Springsteen produceva questo effetto e io, umile cronista, mi sentivo il messaggero degli Dei, in missione per conto di una superiore causa, onorando il vecchio adagio secondo il quale il mondo si divide tra chi ha visto il Boss in concerto e chi non lo ama, perché chi non lo ama non lo ha mai visto dal vivo e Springsteen dal vivo ha sparso fuoco ed energia come nessun altro. È stato eroe di mille battaglie, l’indistruttibile guerriero del rock che combatteva dal palco con la sua logora spada Fender che sembrava più potente di quella laser di Obi-Wan Kenobi.
Ma da qualche tempo ci sono strane dissonanze che turbano il sonno della devozione. A cominciare dall’ultimo prodotto, Road diary, il documentario diretto dal fedelissimo Thom Zimny, che racconta le gesta del tour 2023, quello della ripartenza, dopo sei anni di pausa con la E Street Band. La prima impressione è di stanchezza. Non tanto fisica, come sarebbe normale, visto che il Boss ha 75 anni, quanto di linguaggio, di comunicazione. Il documentario è semplice, banale, mostra le prove e le performance del tour, ma ripete luoghi comuni già sentiti cento volte, l’epica della band, la famiglia on the road, il non tradire le attese dei fan, il vincolo spirituale col fratello nero Clarence Clemons, gli esordi nei Castiles, non c’è niente ma proprio niente di nuovo, a parte, com’è stato notato da più parti, una inedita disponibilità ad affrontare l’idea di mortalità.
Uno Springsteen più maturo, più disposto ad accettare che la vitalità possa avere dei limiti? Sì, ma allo stesso tempo mentre si racconta mostra quel volto innaturale, senza una ruga, liscio come quello di un bambino. Lo so è terribile da dire, è qualcosa che molti fan pensano, ma non osano neanche formulare, ma le rughe del boss sarebbero le più espressive e intense rughe del mondo, se solo le avesse lasciate esistere. E poi le chiusure, gli arroccamenti, a partire da quel rumoroso silenzio seguito alle polemiche sul dynamic pricing dei concerti (il “prezzo dinamico”, flessibile in base alla richiesta, ndr). I fan si lamentavano, facevano notare che forse c’era un problema, che bisognava spendere troppi soldi per ottenere un biglietto, e Bruce zitto, fece parlare il manager Landau che si giustificò, ma senza convincere nessuno.
Giorni fa la caduta. Forbes lo segnala tra i “miliardari” e lui risponde in modo goffissimo: no, ma non credo, poi io spendo molto, pago molto bene la band, e altre amenità che hanno solo peggiorato quella che era una pura e semplice constatazione, difficilmente confutabile. In Road diary la prima canzone che canta è Ghosts, nella quale grida “I’m alive!”. “Possiamo fare un po’ meno del solito?” gli chiede qualcuno della band. No, risponde Bruce, non possiamo fare questo al pubblico, voglio un vero rock show, come atto di responsabilità verso quelli che non hanno visto i concerti degli anni Settanta.
A parte un paio di battute formidabili come quella di Little Steven che all’investitura di direttore musicale alle prove senza il boss dice: “Well, you know, 40 anni in ritardo, ma va bene...”, il documentario affonda in una sensazione di dejà vu. E poi le barzellette raccontate all’evento benefico Stand up for heroes, non battute politiche, battutacce sulle scappatelle dei mariti con escort prosperose.
È vero, i pezzi nuovi inseriti in concerto hanno a che fare col passare del tempo, ma “the rust never sleeps” ammoniva Neil Young, la ruggine non dorme mai e bisogna contrastarla con strumenti adeguati, non facendo finta che non ci sia. E dire che per tanti anni a insegnarcelo è stato proprio lui.
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