MILIARDI E NON SOLO: ECCO I 117 PADRONI DEL MONDO (CHE QUASI NESSUNO CONOSCE)
Le prime dieci società d'investimento globali gestiscono patrimoni per quasi 50 mila miliardi di dollari. Uno studio misura il loro (stra)potere. Ben oltre la finanza
di Mauro Del Corno
Abbiamo tutti una percezione, più o meno nitida, che un “Potere” esista. Un Potere che influisce sulle nostre esistenze, sul mondo in cui sono organizzate le nostre società, sui loro valori. Persino su cosa e come dobbiamo pensare o desiderare. Tuttavia, è un potere che ci sembra senza volto, senza luogo, inconoscibile e irraggiungibile. Questa impalpabilità ha anche l’effetto di mortificare qualsiasi volontà di cambiamento. Come posso lottare per cambiare le cose se non so neppure contro chi lottare? Dare un nome e un volto a chi comanda diventa così la premessa fondamentale per qualunque tentativo di concepire una società diversa.
A quest’opera cartografica del potere si è dedicato con certosina precisione Peter Phillips, sociologo della californiana Sonoma State University, che illustra i risultati nel suo nuovo libro Titans of Capital, appena uscito negli Stati Uniti per Seven Stories. Il libro si concentra sulle prime dieci entità finanziarie del mondo e sui “Titani” che le dirigono, occupandone i posti nei consigli di amministrazione. Non sono sei come nella mitologia greca, ma 117. Sono in soprattutto maschi (65%), bianchi (86%). Più della metà è statunitense (56%), seguono i francesi (14,5%); altre nazionalità sono tutte sotto il 5%. Sono tutti ricchi, alcuni ricchissimi, sono soprattutto i nodi di una sterminata rete di potere e relazioni da cui nulla e nessuno sfugge. Una rete che conta sul potere di immense quantità di denaro e che si tesse nei consigli direttivi di aziende, organizzazioni internazionali ed enti governativi, associazioni, università, musei, enti caritatevoli, teatri ed anche ong.
Oggi non esiste banca o multinazionale che non abbia uno o più di questi colossi come azionisti. E ciò significa potere
I Titani non hanno un potere assoluto sulle ricchezze che amministrano. Anche loro devono sottostare al supremo e assoluto comandamento: guadagnare. Tuttavia, insieme ad alcuni capi di gigantesche aziende, sono quanto di più simile esista al concetto di élite dominante, le cui opinioni, inclinazioni, passioni, convinzioni politiche finiscono per influenzare, più o meno direttamente, la vita di tutti noi. «I Titani hanno nelle loro mani la gran parte del capitale finanziario globale», ci spiega Phillips. «Governi, militari, agenzie di intelligence, gruppi politici, media aziendali e altri capitalisti, inevitabilmente, hanno un occhio di riguardo nei confronti di questi individui e fanno di tutto per garantirne protezione e supporto». I 117 “padroni del mondo” dirigono società che amministrano, nel complesso, ricchezze pari a 50 mila miliardi di dollari. La sola Blackrock, la più grande delle dieci esaminate, muove un patrimonio di 10 mila miliardi di dollari, una cifra che supera il valore del Pil di Giappone e Germania messi insieme. Le altre nove sono, in ordine di grandezza, Vanguard, Ubs, Fidelity, State Street, Morgan Stanley, Jp Morgan, Amundi, Allianz, Capital group.
Si tratta di gruppi statunitensi (7) ed europei (3), che amministrano ed investono i soldi di decine di milioni di persone. Trentacinque milioni di americani hanno per esempio del denaro dentro Blackrock. Risorse che vengono investite soprattutto comprando azioni in tutto il mondo, in base a una strategia che si può riassumere così: se compri tutto, alla fine guadagni. E funziona: dal 2017, il patrimonio dei dieci è quasi raddoppiato, passando da 26 mila a 49 mila miliardi di dollari. Oggi non esiste multinazionale che non abbia uno o più di questi dieci colossi della finanza tra i suoi principali azionisti. Ciò significa altro potere che si somma a quello emanato dal denaro. In quanto soci, i rappresentanti dei dieci, occupano posti nei consigli di amministrazione delle imprese partecipate, contribuendo a definirne scelte e strategie.
Si va dalle compagnie petrolifere Shell e BP, alle case farmaceutiche Merck, Johnson & Johnsone Roche, passando per colossi dell’auto come Volkswagen, General Motors o Mercedes. Da banche come Unicredit, al colosso dei beni di consumo Procter and Gamble. E poi Ibm, Hewlett Packard, Du Pont, Dow Chemical… per citare solo qualche nome di un’interminabile lista. Phillips sottolinea nel libro anche gli ingenti investimenti nelle industrie di tabacco, alcol, plastica, armi da fuoco, gioco d’azzardo e prigioni private, “investimenti che generano impatti negativi sulle popolazioni di tutto il mondo”. Blackrock, Vanguard e State Street sono, tra l’altro, i primi azionisti dei principali costruttori di armi statunitensi, da Lockheed Martin a Northrop Grumann e Raytehon.
Importante la presenza in associazioni, ong, enti culturali, ospedali. E il World Economic Forum è il loro salotto di casa
Non è difficile capire cosa significhi la presenza nei consigli d’amministrazione, anche in termini di accesso a informazioni privilegiate da sfruttare per le scelte di investimento delle case madri. Inciso: Blackrock, State Street, Vanguard sono pure i primi azionisti delle più importanti società di rating, Moody’s e Standard and Poor’s, che assegnano voti di affidabilità creditizia a stati e aziende (tra cui, neanche a dirlo, quelle di cui i dieci sono soci).
Fin qui il “potere del denaro”. C’è un’altrettanto importante e strutturata rete di presenze in associazioni, enti culturali, ospedali, ong, organismi governativi e internazionali. I 117 siedono per esempio nei board del Fondo monetario internazionale, della Banca dei regolamenti internazionali (una specie di banca centrale delle banche centrali) e del consiglio atlantico Nato. Hanno ruoli nella Federal Reserve e nel suo braccio armato che opera direttamente sui mercati, la Fed di New York.
Sono presenti nell’associazione delle banche svizzere, nel fondo sovrano del Kuwait, nel comitato per la regolamentazione dei mercati finanziari, nel gruppo di esperti Onu per la riduzione delle emissioni. Due membri dei Titani hanno lavorato anche per la Cia. Il World Economic Forum di Davos e la Trilateral Commission sono salotti di casa.
“La disuguaglianza non è mai accidentale”, afferma peter phillips, “ma è incoraggiata dai Titani con le loro decisioni”
E ancora, tra le ong che ospitano alcuni dei 117 dirigenti nei rispettivi organi direttivi, ci sono la Croce rossa americana, la Fondazione di re Carlo terzo, Oxfam America, Save the Children, Clean air task force e tantissime altre. Tra le università spiccano il Mit di Boston, la London Business School, l’Università di Chicago, la Fondazione Ecole normale supérieure di Parigi, la scuola cinese internazionale di Hong Kong. Poi un’infinità di enti artistici e ospedali tra cui l’Orchestra di Filadelfia, il Moma di New York, l’ospedale Presbiteriano di New York, il SUMs di Venezia.
Man mano che le scelte vengono delegate al mercato, i governi mettono in pratica decisioni assunte altrove
Tra pesi massimi non conviene farsi la guerra, tutti rischiano di farsi troppo male. Le dieci società analizzate investono molto tra di loro. Nel 2022 il valore delle partecipazioni incrociate ammontava a 320 miliardi di dollari. Possiamo vederla come l’equivalente di quando le grandi dinastie regnanti si imparentavano tra loro. Qui non si maritano rampolli, ma si investono denari. Sono pratiche che consentono un attento monitoraggio delle rispettive politiche e una comunanza di interessi reciproci nel mantenimento dello status quo e nella crescita del mercato. Blackrock, per esempio, ha investito più di 17 miliardi nella “concorrente” Vanguard e altri 4 miliardi in State Street. A sua volta Vanguard ha una partecipazione in Blackrock che vale 9,6 miliardi e una in Jp Morgan che ne vale addirittura 37. State Street ha investito in Vanguard oltre 5 miliardi e 1,6 in Blackrock. Dal canto suo, Jp Morgan ha messo in Vanguard la bellezza di 70 miliardi e altri 18 li ha piazzati in Blackrock. E questi sono solo gli incroci principali.
Nel libro, Phillips spiega come questa immensa concentrazione di potere prosperi grazie a un ecosistema che la preserva con cura. «Le istituzioni del capitalismo globale proteggono la proprietà privata di beni, attività commerciali e ricchezza personale. I governi occidentali controllano i meccanismi legali e di polizia che assicurano che la ricchezza rimanga di proprietà privata e consentano ai ricchi di accumulare patrimoni sempre più grandi», dice a MillenniuM il sociologo americano.
Ciò contribuisce a esasperare tendenze come l’estrema polarizzazione della ricchezza. Del resto, ha spiegato l’economista Thomas Piketty, queste non sono anomalie o difetti del sistema capitalistico, ma sono esattamente il risultato del modo in cui il sistema funziona. “La disuguaglianza globale”, scrive Phillips, “non è mai accidentale. Piuttosto, è una circostanza incoraggiata, mantenuta e controllata dalle élite dei Titani tramite decisioni di investimento di capitale e organizzazioni politiche finanziate principalmente dai soldi di cui dispongono”.
Lo studioso ci ricorda poi che “tra le conseguenze dell’estrema disuguaglianza di ricchezza a livello globale ci sono anche guerre e minacce di guerra, la repressione dei diritti umani e le devastazioni ambientali”. Questo ci porta a una “crisi dell’umanità”, che William I. Robinson, sociologo presso l’Università della California, a Santa Barbara, descrive come “una minaccia alla sopravvivenza della nostra specie e di tutti gli esseri viventi”.
Se vogliamo provare a contrastare questa deriva, grazie al libro, sappiamo un po’ meglio a chi dobbiamo rivolgerci. «Penso che, come abitanti di questo pianeta, abbiamo tutti la responsabilità e il dovere di costruire strutture democratiche di base che sfidino apertamente la concentrazione della ricchezza e il controllo delle risorse mondiali da parte di poche persone», ci dice Phillips.
In passato era forse un po’ più semplice. I leader politici e i capi degli Stati (almeno di quelli più potenti) impersonavano la capacità e la forza decisionale. Erano esseri umani e, almeno in una certa misura, condizionabili con il voto popolare. Esisteva insomma un canale di contatto tra chi comanda e chi è comandato. Accadeva quando la finanza era subordinata alla politica, decisioni e azioni non erano mosse esclusivamente dal perseguimento di profitti.
Poi, man mano che le decisione sono state delegate al “mercato”, la nebbia si è fatta fitta, le figure sono sbiadite. Ora vediamo governi che svolgono ruoli puramente notarili, registrano e mettono in pratica cose decise in un qualche altrove e imposte senza possibilità di rifiuto poiché le punizioni minacciate sono terrorizzanti. Ricordate cosa accadde in Grecia nell’estate 2015? Nel referendum sulle condizioni poste al Paese da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Unione europea, gradite ai mercati, il 62% della popolazione votò no, “oxi”. Eppure, 48 ore dopo, il governo accettò quelle stesse condizioni.
Per prosciugare i processi democratici si ricorre a una presunta ma incontestabile “razionalità”. Una falsificazione, come emerso drammaticamente nella crisi del 2008. In Grecia, naturalmente, esistevano altri modi per gestire la crisi che avrebbero attenuato l’umiliazione e la sofferenza della popolazione. Si sarebbe però dovuto accettare di infliggere qualche perdita in più ai colossi della finanza internazionale. Ma i Titani non avrebbero gradito.
Abbiamo tutti una percezione, più o meno nitida, che un “Potere” esista. Un Potere che influisce sulle nostre esistenze, sul mondo in cui sono organizzate le nostre società, sui loro valori. Persino su cosa e come dobbiamo pensare o desiderare. Tuttavia, è un potere che ci sembra senza volto, senza luogo, inconoscibile e irraggiungibile. Questa impalpabilità ha anche l’effetto di mortificare qualsiasi volontà di cambiamento. Come posso lottare per cambiare le cose se non so neppure contro chi lottare? Dare un nome e un volto a chi comanda diventa così la premessa fondamentale per qualunque tentativo di concepire una società diversa.
A quest’opera cartografica del potere si è dedicato con certosina precisione Peter Phillips, sociologo della californiana Sonoma State University, che illustra i risultati nel suo nuovo libro Titans of Capital, appena uscito negli Stati Uniti per Seven Stories. Il libro si concentra sulle prime dieci entità finanziarie del mondo e sui “Titani” che le dirigono, occupandone i posti nei consigli di amministrazione. Non sono sei come nella mitologia greca, ma 117. Sono in soprattutto maschi (65%), bianchi (86%). Più della metà è statunitense (56%), seguono i francesi (14,5%); altre nazionalità sono tutte sotto il 5%. Sono tutti ricchi, alcuni ricchissimi, sono soprattutto i nodi di una sterminata rete di potere e relazioni da cui nulla e nessuno sfugge. Una rete che conta sul potere di immense quantità di denaro e che si tesse nei consigli direttivi di aziende, organizzazioni internazionali ed enti governativi, associazioni, università, musei, enti caritatevoli, teatri ed anche ong.
Oggi non esiste banca o multinazionale che non abbia uno o più di questi colossi come azionisti. E ciò significa potere
I Titani non hanno un potere assoluto sulle ricchezze che amministrano. Anche loro devono sottostare al supremo e assoluto comandamento: guadagnare. Tuttavia, insieme ad alcuni capi di gigantesche aziende, sono quanto di più simile esista al concetto di élite dominante, le cui opinioni, inclinazioni, passioni, convinzioni politiche finiscono per influenzare, più o meno direttamente, la vita di tutti noi. «I Titani hanno nelle loro mani la gran parte del capitale finanziario globale», ci spiega Phillips. «Governi, militari, agenzie di intelligence, gruppi politici, media aziendali e altri capitalisti, inevitabilmente, hanno un occhio di riguardo nei confronti di questi individui e fanno di tutto per garantirne protezione e supporto». I 117 “padroni del mondo” dirigono società che amministrano, nel complesso, ricchezze pari a 50 mila miliardi di dollari. La sola Blackrock, la più grande delle dieci esaminate, muove un patrimonio di 10 mila miliardi di dollari, una cifra che supera il valore del Pil di Giappone e Germania messi insieme. Le altre nove sono, in ordine di grandezza, Vanguard, Ubs, Fidelity, State Street, Morgan Stanley, Jp Morgan, Amundi, Allianz, Capital group.
Si tratta di gruppi statunitensi (7) ed europei (3), che amministrano ed investono i soldi di decine di milioni di persone. Trentacinque milioni di americani hanno per esempio del denaro dentro Blackrock. Risorse che vengono investite soprattutto comprando azioni in tutto il mondo, in base a una strategia che si può riassumere così: se compri tutto, alla fine guadagni. E funziona: dal 2017, il patrimonio dei dieci è quasi raddoppiato, passando da 26 mila a 49 mila miliardi di dollari. Oggi non esiste multinazionale che non abbia uno o più di questi dieci colossi della finanza tra i suoi principali azionisti. Ciò significa altro potere che si somma a quello emanato dal denaro. In quanto soci, i rappresentanti dei dieci, occupano posti nei consigli di amministrazione delle imprese partecipate, contribuendo a definirne scelte e strategie.
Si va dalle compagnie petrolifere Shell e BP, alle case farmaceutiche Merck, Johnson & Johnsone Roche, passando per colossi dell’auto come Volkswagen, General Motors o Mercedes. Da banche come Unicredit, al colosso dei beni di consumo Procter and Gamble. E poi Ibm, Hewlett Packard, Du Pont, Dow Chemical… per citare solo qualche nome di un’interminabile lista. Phillips sottolinea nel libro anche gli ingenti investimenti nelle industrie di tabacco, alcol, plastica, armi da fuoco, gioco d’azzardo e prigioni private, “investimenti che generano impatti negativi sulle popolazioni di tutto il mondo”. Blackrock, Vanguard e State Street sono, tra l’altro, i primi azionisti dei principali costruttori di armi statunitensi, da Lockheed Martin a Northrop Grumann e Raytehon.
Importante la presenza in associazioni, ong, enti culturali, ospedali. E il World Economic Forum è il loro salotto di casa
Non è difficile capire cosa significhi la presenza nei consigli d’amministrazione, anche in termini di accesso a informazioni privilegiate da sfruttare per le scelte di investimento delle case madri. Inciso: Blackrock, State Street, Vanguard sono pure i primi azionisti delle più importanti società di rating, Moody’s e Standard and Poor’s, che assegnano voti di affidabilità creditizia a stati e aziende (tra cui, neanche a dirlo, quelle di cui i dieci sono soci).
Fin qui il “potere del denaro”. C’è un’altrettanto importante e strutturata rete di presenze in associazioni, enti culturali, ospedali, ong, organismi governativi e internazionali. I 117 siedono per esempio nei board del Fondo monetario internazionale, della Banca dei regolamenti internazionali (una specie di banca centrale delle banche centrali) e del consiglio atlantico Nato. Hanno ruoli nella Federal Reserve e nel suo braccio armato che opera direttamente sui mercati, la Fed di New York.
Sono presenti nell’associazione delle banche svizzere, nel fondo sovrano del Kuwait, nel comitato per la regolamentazione dei mercati finanziari, nel gruppo di esperti Onu per la riduzione delle emissioni. Due membri dei Titani hanno lavorato anche per la Cia. Il World Economic Forum di Davos e la Trilateral Commission sono salotti di casa.
“La disuguaglianza non è mai accidentale”, afferma peter phillips, “ma è incoraggiata dai Titani con le loro decisioni”
E ancora, tra le ong che ospitano alcuni dei 117 dirigenti nei rispettivi organi direttivi, ci sono la Croce rossa americana, la Fondazione di re Carlo terzo, Oxfam America, Save the Children, Clean air task force e tantissime altre. Tra le università spiccano il Mit di Boston, la London Business School, l’Università di Chicago, la Fondazione Ecole normale supérieure di Parigi, la scuola cinese internazionale di Hong Kong. Poi un’infinità di enti artistici e ospedali tra cui l’Orchestra di Filadelfia, il Moma di New York, l’ospedale Presbiteriano di New York, il SUMs di Venezia.
Man mano che le scelte vengono delegate al mercato, i governi mettono in pratica decisioni assunte altrove
Tra pesi massimi non conviene farsi la guerra, tutti rischiano di farsi troppo male. Le dieci società analizzate investono molto tra di loro. Nel 2022 il valore delle partecipazioni incrociate ammontava a 320 miliardi di dollari. Possiamo vederla come l’equivalente di quando le grandi dinastie regnanti si imparentavano tra loro. Qui non si maritano rampolli, ma si investono denari. Sono pratiche che consentono un attento monitoraggio delle rispettive politiche e una comunanza di interessi reciproci nel mantenimento dello status quo e nella crescita del mercato. Blackrock, per esempio, ha investito più di 17 miliardi nella “concorrente” Vanguard e altri 4 miliardi in State Street. A sua volta Vanguard ha una partecipazione in Blackrock che vale 9,6 miliardi e una in Jp Morgan che ne vale addirittura 37. State Street ha investito in Vanguard oltre 5 miliardi e 1,6 in Blackrock. Dal canto suo, Jp Morgan ha messo in Vanguard la bellezza di 70 miliardi e altri 18 li ha piazzati in Blackrock. E questi sono solo gli incroci principali.
Nel libro, Phillips spiega come questa immensa concentrazione di potere prosperi grazie a un ecosistema che la preserva con cura. «Le istituzioni del capitalismo globale proteggono la proprietà privata di beni, attività commerciali e ricchezza personale. I governi occidentali controllano i meccanismi legali e di polizia che assicurano che la ricchezza rimanga di proprietà privata e consentano ai ricchi di accumulare patrimoni sempre più grandi», dice a MillenniuM il sociologo americano.
Ciò contribuisce a esasperare tendenze come l’estrema polarizzazione della ricchezza. Del resto, ha spiegato l’economista Thomas Piketty, queste non sono anomalie o difetti del sistema capitalistico, ma sono esattamente il risultato del modo in cui il sistema funziona. “La disuguaglianza globale”, scrive Phillips, “non è mai accidentale. Piuttosto, è una circostanza incoraggiata, mantenuta e controllata dalle élite dei Titani tramite decisioni di investimento di capitale e organizzazioni politiche finanziate principalmente dai soldi di cui dispongono”.
Lo studioso ci ricorda poi che “tra le conseguenze dell’estrema disuguaglianza di ricchezza a livello globale ci sono anche guerre e minacce di guerra, la repressione dei diritti umani e le devastazioni ambientali”. Questo ci porta a una “crisi dell’umanità”, che William I. Robinson, sociologo presso l’Università della California, a Santa Barbara, descrive come “una minaccia alla sopravvivenza della nostra specie e di tutti gli esseri viventi”.
Se vogliamo provare a contrastare questa deriva, grazie al libro, sappiamo un po’ meglio a chi dobbiamo rivolgerci. «Penso che, come abitanti di questo pianeta, abbiamo tutti la responsabilità e il dovere di costruire strutture democratiche di base che sfidino apertamente la concentrazione della ricchezza e il controllo delle risorse mondiali da parte di poche persone», ci dice Phillips.
In passato era forse un po’ più semplice. I leader politici e i capi degli Stati (almeno di quelli più potenti) impersonavano la capacità e la forza decisionale. Erano esseri umani e, almeno in una certa misura, condizionabili con il voto popolare. Esisteva insomma un canale di contatto tra chi comanda e chi è comandato. Accadeva quando la finanza era subordinata alla politica, decisioni e azioni non erano mosse esclusivamente dal perseguimento di profitti.
Poi, man mano che le decisione sono state delegate al “mercato”, la nebbia si è fatta fitta, le figure sono sbiadite. Ora vediamo governi che svolgono ruoli puramente notarili, registrano e mettono in pratica cose decise in un qualche altrove e imposte senza possibilità di rifiuto poiché le punizioni minacciate sono terrorizzanti. Ricordate cosa accadde in Grecia nell’estate 2015? Nel referendum sulle condizioni poste al Paese da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Unione europea, gradite ai mercati, il 62% della popolazione votò no, “oxi”. Eppure, 48 ore dopo, il governo accettò quelle stesse condizioni.
Per prosciugare i processi democratici si ricorre a una presunta ma incontestabile “razionalità”. Una falsificazione, come emerso drammaticamente nella crisi del 2008. In Grecia, naturalmente, esistevano altri modi per gestire la crisi che avrebbero attenuato l’umiliazione e la sofferenza della popolazione. Si sarebbe però dovuto accettare di infliggere qualche perdita in più ai colossi della finanza internazionale. Ma i Titani non avrebbero gradito.
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