mercoledì 26 giugno 2024

Robecchi

 

Latina, Alabama. Lavoro e schiavisti con l’eterno ritorno di “Via col vento”

di Alessandro Robecchi 

Per ora nella piccola grande Alabama che è la zona agricola di Latina e dintorni si sta girando Via col vento, ma senza la parte romantica. Rossella O’Hara non compare, compaiono solo gli schiavi e gli schiavisti, e anzi compaiono solo gli schiavisti, perché gli schiavi hanno paura a farsi vedere e a meno che non lo facciano insieme, come nelle manifestazioni di questi giorni, restano invisibili.

Si è detto molto, e molte cose giuste e ragionevoli, sulla terribile morte di Satnam Singh, condannato al dissanguamento dal padrone bianco (restiamo in Alabama) che l’ha scaricato come un cane invece di portarlo all’ospedale. E si sono lette anche cose irricevibili, in generale pronunciate a destra, ma non solo: alla fine è colpa dei clandestini (sottotesto: se stavano a casa loro…), oppure della filiera agricola (volete pagare la frutta pochi euro?); o ancora del racket degli schiavi, gestito da stranieri, che costringe i poveri imprenditori italiani – che sarebbero così buoni e compassionevoli, metterebbero in regola tutti, rispetterebbero diritti e regole a costo di sacrificare parte dei profitti – ad accettare a malincuore lo sfruttamento dei lavoratori. Una barzelletta coloniale, insomma: addossare agli schiavi la responsabilità della schiavitù è un classico dai tempi delle potenze europee in Africa, o dei latifondisti del cotone in Mississippi. Aggiungerei all’elenco il ministro dell’Agricoltura, il cognato d’Italia, che ammonisce di “non criminalizzare gli imprenditori”: Rossella O’Hara può dormire tranquilla, nessuno ha intenzione di abolire la schiavitù.

Si assiste insomma a una manovra concentrica che colpevolizza tutti tranne i colpevoli. Un po’ è colpa degli schiavi, se sono schiavi, e un po’ è colpa nostra, che andiamo al supermercato e compriamo le mele, o le arance, o i meloni, pagandoli poco. Bon, chiuso, finito. Si poserà la polvere e si passerà ad altro, esattamente come cinque anni fa, quando l’azienda di Renzo Lovato (il padre di Antonello, quello che ha scaricato Satnam ferito senza soccorrerlo) fu indagata per caporalato, poi beghe rinvii, pasticci giudiziari, rallentamenti, e niente, l’azienda sta ancora lì, il caporalato sta ancora lì, gli schiavi stanno ancora lì.

A questo punto, il desiderio, ma direi il bisogno democratico, sarebbe che si passasse da Via col vento a Mississippi Burning, il film di Alan Parker (1988), dove davanti a una comunità schiavista, razzista e suprematista vengono inviati squadroni di agenti dell’Fbi che rivoltano le campagne come un calzino, riportando dignità e giustizia. Spoiler: non accadrà. E anzi, mi scuso della ripetizione, perché questo sogno un po’ naïf che arrivi Gene Hackman con i suoi uomini a fare giustizia, l’avevo già scritto. Per la precisione nel giugno del 2018, quando nella piana di Gioia Tauro era stato ucciso a fucilate Soumaila Sacko, lavoratore straniero che si impegnava per i diritti. Se cercate i giornali di allora, troverete le stesse cose, le stesse parole, le stesse furenti indignazioni. L’opinione pubblica italiana scopriva le baracche, le condizioni disumane, la schiavitù. Sono passati anni, governi, ministri, e siamo ancora lì, a Gioia Tauro, uguale, a Latina, uguale, a Via col vento. E questo non perché siamo distratti (anche), o cattivi (anche), ma perché è considerato conveniente un sistema che fa del profitto l’unica variabile indipendente – e tutto il resto viene dopo, compresa la vita e la dignità – un sistema che consente, anzi consiglia, benedice e protegge la schiavitù.

Nessun commento:

Posta un commento