sabato 29 giugno 2024

Che ricordi!

 

Nell’albero caverna lo spirito del bosco L’estate nel Casentino in fuga dal rumore
di Gabriele Romagnoli
Confesso: non ho mai viaggiato per cercare un luogo dell’anima, una vibrazione spirituale, la pace interiore. Mi sono sempre affidato al fatalismo: se è destino, mi verrà incontro. Infatti: quando sono arrivato a Sedona, in Arizona, ho sentito scariche di energia prima che mi parlassero dei vortici; a Dharamshala, in India, camminando all’alba, ho inspiegabilmente sorriso, come tutti, a tutti; poi c’è stato il Casentino. Non ho scelto io di andarci, mi ci hanno portato perché «potrebbe essere il posto che cerchi». Invece, è quello che mi ha trovato.

Tutto quel che ne sapevo era la posizione geografica (una vallata in provincia di Arezzo), l’esistenza di un parco forestale e quella di un omonimo panno per giacche e cappotti che sembra aver prodotto i pallini ma è così dall’inizio e tiene assai caldo. Poi sono arrivato.
Ora pretendiamo di vedere con l’occhio del drone: guardare le cose dall’alto, delimitarne i perimetri, mapparne i sentieri. Viviamo sul pianeta Google Earth. Siamo convinti che essere nella foresta impedisca di comprenderla. Dentro il parco casentinese non c’è limite, né geometria. Il mare lo capisci immergendoti, il bosco altrettanto. È sui singoli alberi che devi concentrarti. Sul castagno Miraglia, per esempio. In una visione che rifugge dall’orientamento sta simbolicamente al centro del Casentino. Alto 22 metri, quasi 9 di circonferenza, un’età valutata fra i tre e i cinque secoli, prende il nome da una donna di fine Ottocento, Elena Miraglia, moglie dell’allora direttore generale del ministero dell’Agricoltura. Poiché l’albero ha una grande cavità, lei ci aveva “fatto tana”, messo un tavolino e una sedia, per leggere, scrivere o pensare. Un’immagine disneyana, o da Panella-Battisti: la donna nel tronco, i rami le sue braccia. Che cosa vedeva? Altri alberi, non la foresta. E li vedeva cambiare. Bisogna potersi ri-accorgere delle stagioni. Il tempo deve passare lasciando una traccia, ma promettendo di venirti a ricercare. L’impermanenza delle cose e degli esseri viventi è un loro aspetto fondamentale, una suprema qualità. Non c’è tristezza in un albero spoglio in autunno: è, era, sarà. Ogni nuova fioritura è una resurrezione laica e possibile. Qui più che altrove, perché raramente inquinata dall’umano, dal suo passo affrettato, dal suo armamentario di collegamento. Qui esiste ancora la nebbia (ricordi?). Il Casentino è ideale per imparare a essere soli ed essenziali; ma anche generosi e decisi. L’esempio è tutto. Vale allora la pena salire fino a Quota.

Qui avvenne un eccidio nel luglio del ’44. Dopo la mediazione di un professore e di una maestra i nazifascisti ridussero da 15 a 5 gli uomini da fucilare, a distanza di 5 minuti uno dall’altro. L’ultimo doveva essere Emilio Spinelli, padre di 6 figli. Raccontano che si fece avanti suo fratello Amedeo, scapolo. Andò dal comandante tedesco e chiese di prendere il posto del fratello. L’ufficiale assentì. Amedeo abbracciò Emilio, gli consegnò il portafoglio, si spostò e fu trapassato dai proiettili. Poteva ritenere inevitabile quel che stava succedendo. P oteva giurarsi di prendere in carico la famiglia del fratello. Fece la scelta più semplice, la più difficile. Poi, a tutti i salvati spetta il dovere di condurre una vita degna e, se possibile, evitare un’altra guerra, altre lapidi. Nel cuore di Poppi, delizioso paese sovrastato da un castello medievale, un negozio espone invece questa scritta-memento: “Qui è stato girato Il ciclone ”, film di Leonardo Pieraccioni, eroe di un altro tempo, a cui il fratello implorava: “Tumulami”. Eppur rileva, nel nostro presente: è un link, un riferimento. Ha l’importanza di una recensione positiva, “è piaciuto anche a…” e in questa terra, puoi aggiungere nomi illustri: a cominciare da san Francesco, poi de Gasperi, papa Giovanni Paolo II, il beato Carlo Acutis (futuro santo millennial), Vittorio Gassman.

Dalla cima del Pratomagno, a 1.592 metri, la grande croce in ferro alta 19 (Eiffel in fase mistica) domina la vallata e benedice tutti. Capita di svegliarsi per il verso notturno di animali alla porta, poi disentire all’alba commenti del tipo: «Ma quelle mucche?». Risposta dei locali: «Sono cervi in amore. Bramiscono». E non significa che desiderino, abbiano brame. O forse sì. Si brama l’afflato, il contagio spirituale, tra il santuario della Verna e l’eremo di Camaldoli.
Un momento chiave è quello del pasto in convento. Lo conosco quel brivido inseguito dal borghese cittadino. Quand’ero ragazzo tra i lavoretti che ho fatto per mantenermi agli studi c’è stata la mansione di guardarobiere alla mensa dei poveri, nelle sere in cui a cenare venivano, per beneficenza, gli iscritti a circoli esclusivi. La cucina era la stessa, i tavoloni anche, il menù all’incirca. Non mancava mai pasta e ceci, o fagioli (qui: acquacotta, tortelli alla lastra, due fette di raviggiolo e un bicchiere di pinot nero). Prima di accomodarsi signori e signore depositavano i soprabiti. Spesso, in quell’epoca pre-ecologista, elaborate pellicce. Ricordo il muso di una volpe, incastonato a centro schiena, osservarmi mentre l’appendevo. L’avrei rivista nelle foreste del Casentino, molti anni dopo. Memore di un racconto Paul Auster (in cui riappare una moneta) ho pensato fosse la stessa: viva e libera. L’ho pensato, non l’ho creduto.
La fede l’hanno i fratini che ringraziano tutte e tutti. I commensali qui sono più mimetici: indossano sandali o scarponcini, camicie a quadri, maglioni di lana grossa, qualcuno si tradisce con uno sfavillante giaccone di panno. Doveva pur farlo, un intervallo di shopping. Anche l’ironia ha il suo tramonto. Taci, quando si fa sera. Pure i cervi ammutoliscono, perfino l’amore si ritira, oscurato dal puro sentimento d’essere stati, essere ancora, vivi. Ed è merito del bosco, se trascuri il resto del mondo, se senti tutto senza vedere niente.
Il punto di non ritorno da questo viaggio è che bisogna pur scegliere un luogo definitivo per dissolversi nell’universo e questo è il mio.

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