La destra e il 25 Aprile
Nei panni di un neofascista
DI CORRADO AUGIAS
Penso sia inutile e forse controproducente continuare a chiedere a certi membri del governo e loro rappresentanti nei vari enti, una professione di antifascismo. Molti di loro non possono farla o perché rimasti sinceramente fascisti nell’animo o per motivi tattici. Alcuni hanno nel portafogli la foto del papà o del nonno col fez e il pugnale alla cintura; alcuni detestano il presente, il quale ha effettivamente aspetti detestabili ma per ragioni che bisogna saper individuare, il rifiuto non basta; alcuni rimpiangono gli anni d’una giovinezza familiare quando ognuno stava al suo posto e i treni arrivavano in orario. Vecchie mitologie che col tempo si caricano di un’aura vaga dove tutto si mescola: memoria, vera o immaginata, nostalgia, emozioni, racconti uditi da bambino che scendono nel profondo trasformandosi in una verità indimostrabile, quindi inconfutabile.
Uno scrittore deve saper vedere la realtà anche con gli occhi degli altri, personalmente ho fatto qualche volta questo esercizio. Mi sonoposto nello stato d’animodi un neofascista cheper decenni si è sentito escluso senza colpa dalla vita del Paese, donde la collera, lo sdegno,nel vederei vincitori del ’45 considerare lo Stato come un appannaggio esclusivo, con valori esclusivi, il monopolio della cultura dalla letteratura al cinema, dalle arti figurative al teatro, esibito, gridato. Loro, sempre loro. E noi, i vinti? Noi che diamo tutto il peso che merita all’idea di nazione, e amiamo ripeterla questa parola, accarezzarla, lanciarla a chi ascolta perché la riponga nel suo cuore e la usi al posto dell’anonimo, detestabile “Paese”. Il nostro Paese, che banalità, dici la nostra nazione e tutto di colpo s’alza in volo. Noi che conserviamo il senso della patria, del sacrificio, l’ideale di un’Italia forte, rispettata nel mondo, noi che eravamo un popolofinalmente unito dopo secoli in cui cisiamo lacerati e combattuti con la ferocia che hanno solo le lotte fratricide. La libertà, dicono. La libertà, certo; ma la libertà ha un costo, bisogna saperlo valutare nell’equilibrio di una vita e nell’esistenza di una nazione.
Vale di più la libertà o la serenità? La libertà o l’ordine dove chi sgarra viene preso in consegna e allontanato perché gli altri possano godere la meritata pace sociale? La libertà è un valore ma non è il solo valore, ne esistono altri che vanno ugualmente tutelati. In questa costellazione trova un suo posto anche la libertà purché non confligga con altre prerogative e diritti che servono, tutti insieme, a promuovere il cammino di un popolo. Credo che siano più o meno queste le ragioni per le quali è inutile continuare a chiedere ai fascisti del XXI secolo, dichiarati o dissimulati come un tempo i marrani, una professione di antifascismo. Il fallimento di quel regime, i crimini ordinati o tollerati dal suo capo Benito Mussolini, gli omicidi singoli o di massa, l’asservimento al delirante fanatismo nazista, contano poco, contano niente, rispetto alle “cose buone” che tutto mescolano in una realtà tanto più alonata di leggenda quanto più s’allontana.
Capisco il funzionario zelante, debole nel discernimento ma solido nelle convinzioni, che ritiene blasfemo uno scrittore che osa criticare, affacciandosi alla tv pubblica, il capo del governo.
C’è ingenuità e purezza nell’ordine di bandirlo, sprezzo delle conseguenze, un certo ardimento: sono qui per fare scudo alla reputazione di una figura delegata alla guida della nazione dalla maggioranza degli italiani. Tutta la possibile libertà s’è esaurita nella scelta di eleggerla, liberamente, a furor di popolo.
C’è anche una seconda ragione per la quale è inutile, forse controproducente, continuare a chiedere una professione di antifascismo a chi non può darla. Qui si scende dalle nuvole degli ideali per atterrare sullo scabroso terreno della lotta politica nel suo momento più rude: la campagna elettorale.
C’è ingenuità e purezza nell’ordine di bandirlo, sprezzo delle conseguenze, un certo ardimento: sono qui per fare scudo alla reputazione di una figura delegata alla guida della nazione dalla maggioranza degli italiani. Tutta la possibile libertà s’è esaurita nella scelta di eleggerla, liberamente, a furor di popolo.
C’è anche una seconda ragione per la quale è inutile, forse controproducente, continuare a chiedere una professione di antifascismo a chi non può darla. Qui si scende dalle nuvole degli ideali per atterrare sullo scabroso terreno della lotta politica nel suo momento più rude: la campagna elettorale.
La presidente del Consiglio non può dichiararsi antifascista per il semplice motivo che ha bisogno di arrivare alle elezioni europee con il massimo possibile della forza in termini di voti. Deve regolare i conti con l’inquieto Matteo Salvini che vede franare i consensi e s’agita disposto a collocarsi alla sua destra pur di guadagnare qualche simpatia in più. La premier non può lasciarlo solo su quel terreno. Può far mostra di un moderato conservatorismo all’estero ma qui, rivolgendosi alla nazione, deve tenere stretti tutti: la borghesia spaventata dalle novità e l’ala dei nostalgici chiusi nei loro macabri rituali: Duce, a noi!
Deve zittire chi osa criticarla, portarlo in giudizio, esigere risarcimenti. Deve infangare chi la mette in imbarazzo perché le ricorda un passato che, forse, vorrebbe lei stessa dimenticare. Lo fanno per soldi, dice, si fanno pagare col denaro dei contribuenti per insultarmi. Mi permetto di sottoporre a Meloni un passo di Michel de Montaigne che potrebbe interessarla (Saggi,libro II, undicesimo capitolo, Adelphi) per un dignitoso svolgimento del suo incarico: “Mi sembra che la virtù sia cosa diversa e più nobile delle inclinazioni alla bontà. Le anime per sé stesse regolate e ben nate presentano nelle loro azioni lo stesso aspetto di quelle virtuose. La virtù però significa qualcosa di più grande e di più attivo che lasciarsi dolcemente condurre da un’indole felice sulla via della ragione. Colui che con dolcezza naturale disprezzasse le offese ricevute farebbe cosa degna di lode; ma colui che, colpito sul vivo da un’offesa, si armasse delle armi della ragione contro quel furioso desiderio di vendetta e arrivasse infine a dominarlo, farebbe molto di più. Quello agirebbe bene, questo virtuosamente”. La virtù dice Montaigne, non la trascuri signora presidente del Consiglio.
Deve zittire chi osa criticarla, portarlo in giudizio, esigere risarcimenti. Deve infangare chi la mette in imbarazzo perché le ricorda un passato che, forse, vorrebbe lei stessa dimenticare. Lo fanno per soldi, dice, si fanno pagare col denaro dei contribuenti per insultarmi. Mi permetto di sottoporre a Meloni un passo di Michel de Montaigne che potrebbe interessarla (Saggi,libro II, undicesimo capitolo, Adelphi) per un dignitoso svolgimento del suo incarico: “Mi sembra che la virtù sia cosa diversa e più nobile delle inclinazioni alla bontà. Le anime per sé stesse regolate e ben nate presentano nelle loro azioni lo stesso aspetto di quelle virtuose. La virtù però significa qualcosa di più grande e di più attivo che lasciarsi dolcemente condurre da un’indole felice sulla via della ragione. Colui che con dolcezza naturale disprezzasse le offese ricevute farebbe cosa degna di lode; ma colui che, colpito sul vivo da un’offesa, si armasse delle armi della ragione contro quel furioso desiderio di vendetta e arrivasse infine a dominarlo, farebbe molto di più. Quello agirebbe bene, questo virtuosamente”. La virtù dice Montaigne, non la trascuri signora presidente del Consiglio.
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