I destini comuni del Beccaria
DI MICHELE SERRA
Nella brutalità delle vicende del Beccaria si legge un doppio abbandono, quello dei ragazzi detenuti e quello dei loro carcerieri. Lo spiega bene don Gino Rigoldi, che in quel carcere è una presenza abituale.E lamenta gli anni di sgoverno e di trascuratezza.
Una galera può essere un buco nero dove ficcare i dannosi e gli inutili; oppure può essere un luogo di soccorso e di rieducazione, o almeno cercare di esserlo: e se si tratta di minori, solo un sadico o un imbecille può avere dubbi tra la prima e la seconda soluzione.
L’agente penitenziario è un lavoro duro e importante. Dovrebbe essere supportato da cultura specifica, corsi di aggiornamento, dignità salariale, rispetto sociale.
Dalle carte dell’inchiesta sul Beccaria emergono invece una povertà di linguaggio, e una rudezza di rapporti (incluso un sanguinoso razzismo), tali da potere escludere che il trattamento dei ragazzi potesse sollevarli dalla violenza e dall’ignoranza nella quale sono cresciuti. Non è la sberla dello sbirro, è l’attenzione del custode che può salvarli, salvando al tempo stesso il custode.
Carcerieri e carcerati condividono lo stesso luogo, le stesse giornate e le stesse nottate.
La penosa speculazione politica sulla questione “ordine pubblico” vede (soprattutto nell’attuale governo) un tifo sbirro che si contrappone a chi si batte per i diritti.
Ma il Beccaria è la prova provata che non esiste differenza tra la dignità dei detenuti e quella dei loro custodi. La perdono o la salvano nello stesso modo e nello stesso luogo. Agenti che parlano e si comportano come delinquenti non fanno che dire ai ragazzi: non c’è speranza, né per voi, né per noi.
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