Il 25 aprile di Meloni dura solo venti minuti Poi il post senza citare l’antifascismo
La premier partecipa alla cerimonia all’Altare della Patria, sui social la generica condanna “a tutti i totalitarismi” “La fine del Ventennio pose le basi della democrazia”
DI STEFANO CAPPELLINI
ROMA — Venti minuti all’Altare della Patria e dieci righe su Internet. Per Giorgia Meloni è un’altra Liberazione celebrata con sforzo sotto il minimo sindacale. Festa di calendario, mai festa politica, incombenza fastidiosa ma obbligatoria per una presidente del Consiglio, da svicolare con la stringatezza dei gesti e l’astrazione dei giri di parole. Alle nove meno cinque del mattino Meloni arriva davanti all’altare della Patria, pochi minuti prima del presidente Sergio Mattarella. Nerovestita, ma niente facili ironie: più probabile si tratti di una scelta in armocromia con lo spirito di giornata. L’auto blu, l’inno d’Italia, la corona, i saluti. Alle nove e mezzo il 25 aprile della presidente del Consiglio è finito.
Tutto molto rapido sebbene non indolore, né per Meloni, figlia di una tradizione politica che ha sempre considerato il 25 aprile una data luttuosa per la nazione, né per i cittadini antifascisti, costretti a leggere nelle parole pubblicate on line dalla presidente del Consiglio il solito arzigogolo dialettico - frase chiave: «la fine del fascismo pose le basi della democrazia» – pur di non dirsi antifascista, non citare la Resistenza e non ripudiare il romanzo di formazione della sua comunità.
Eccola qui, la formula di quest’anno, il nuovo sofisma studiato da Meloni per dire e soprattutto non dire: «Nel giorno in cui l’ltalia celebra la Liberazione, che con la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia, ribadiamo la nostra avversione a tutti i regimi totalitari e autoritari». L’ultimo equilibrismo per simulare il rispetto degli obblighi istituzionali e repubblicani e però, al contempo, non urtare la suscettibilità dei molti suoi elettori che ancora comprano i calendari del Duce in edicola o di quei suoi dirigenti di partito, uno era lì con lei all’Altare della Patria, ansiosi di scambiare un battaglione di Ss per una banda di musicisti in trasferta. «La fine del fascismo pose le basi», che capolavoro. Filosofia catalana, nel senso del filosofo arboriano dell’ovvio non della Catalogna, una constatazione concepita apposta per non esprimere giudizi sul regime mussoliniano, come un meteorologo che del cambio di stagione dica “la fine della primavera pone le basi dell’estate” o un’autopsia che del cadavere riveli: la fine della vita ha posto le basi della morte. Il seguito del messaggio di Meloni agli italiani è la solita equiparazione tra fascismo e comunismo: siamo contro tutti i totalitarismi. L’ennesimo slalom dialettico per mettere tutti sullo stesso piano, quelli che aiutavano i nazisti a rastrellare gli ebrei e quelli che rischiarono o persero la vita per liberare il Paese, quelli che promossero dittatura, guerra e leggi razziali e quelli che scrissero la Costituzione dell’Italia liberata. Nel governo, del resto, c’è un ministro che, intervistato ieri da Repubblica , sostiene che in Italia c’è stata «la dittatura comunista». Fa il ministro della Cultura.
Nel governo c’è un altro ministro che di antifascismo ha parlato alla vigilia della Liberazione per dire che «uccideva ». Si chiama Francesco Lollobrigida, è il cognato della presidente del Consiglio. L’unico ministro intervenuto per sostenere che l’antifascismo è un valore, il titolare della Difesa Guido Crosetto, è il solo che ha suscitato l’ira di Meloni. Forse, non per caso, anche l’unico del gruppo fondatore di Fratelli d’Italia non cresciuto a pane e Almirante, lo storico leader missino che Meloni considera unpadre della patria e che ancora nel 1987 andò in tv e all’intervistatore Giovanni Minoli disse: «Io la parola fascista ce l’ho scritta in fronte». «Le radici non gelano», come ha rivendicato l’anno scorso la sottosegretaria Isabella Rauti, figlia di un altro storico leader missino, l’ordinovista Pino, volendo celebrare una data ben più cara ai cultori della Fiamma, cioè l’anniversario della fondazione del Movimento sociale italiano. Chi pensava che l’aria di Palazzospingesse lentamente Meloni a emulare Berlusconi, che sul 25 aprile partì ostile e finì con il fazzoletto rosso a Onna, Abruzzo, ha sbagliato previsione. Resta tutto fermo al “non rinnegare né restaurare” che era già il motto almirantiano del dopoguerra. A differenza delle radici, i principi si possono congelare.
Meloni ha scelto di preservare l’epica dell’album di famiglia, il Movimento sociale italiano, il Fronte della gioventù, il Fuan, Fare fronte e tutte le altre sigle che hanno svezzato la generazione capace di portare la sezione romana di Colle Oppio dentro Palazzo Chigi. Dalle catacombe al potere, ma senza perdere la paranoia della persecuzione. Meloni è stata capace di lamentare «l’ostracismo» persino mentre, di fatto, difendeva la censura del discorso di Antonio Scurati in Rai sul 25 aprile. La data che i ragazzi del Fronte, ancora all’inizio degli anni Novanta, omaggiavano con un coro da corteo. Faceva così: “Il 25 aprile è nata una puttana/e l’hanno battezzata/Repubblica italiana”. Il resto è lollobrigidismo, la messa in caricatura dello sdegno antifascista: ad accusare i Fratelli d’Italia di non aver mai preso le distanze dal loro imbarazzante passato si riceve un’obiezione strampalata, come se li si stesse accusando di preparare per l’indomani la nuova marcia su Roma.
Mentre Meloni fugge da piazza Venezia per trascorrere il resto della giornata impegnata in telefonate con leader internazionali, dal britannico Sunak all’indiano Modi, a lato dell’Altare della Patria, in largo Berlinguer, resta dietro le transenne una piccola folla quasi solo di turisti che ha assistito da lontano alla cerimonia con Mattarella, i presidenti di Camera e Senato e il presidente della Corte costituzionale. Tra di loro c’è un architetto newyorchese che prende appunti su un taccuino nero. Sta scrivendo un libro su suo zio. Si chiamava Steve Klosz, figlio di immigrati ungheresi in Pennsylvania, arruolato nell’esercito americano durante la Seconda guerra mondiale, sbarcato a Salerno e ucciso poco dopo. Ora riposa al cimitero anglo-americano di Nettuno. Per seguirne le tracce durante il conflitto bellico il nipote è già stato in Marocco e Tunisia. Ha speso mesi e macinato migliaia di chilometri per ricostruire la biografia di un soldato, uno di quelli che morirono per liberare l’Italia dai fascisti. I più ostinati e imboscati dei quali, a guerra finita, fondarono il partito di cui Meloni conserva ancora il simbolo.
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