L’amaca.
Le vite degli altri
di Michele Serra
Del comunismo si era detto - giustamente - che l'ideologia non può e non deve soprapporsi alla vita vera. Che le persone sono persone, con tutti i loro difetti, e non si può pretendere di piegarle a un ordine, per quanto virtuoso, che le irreggimenta e le mortifica.
E del capitalismo, di grazia, che cosa possiamo dire? Gli operai dell'Ilva, gli abitanti di Taranto, così come le moltitudini che in tutto il mondo sono soggette a sconquassi decisi solamente in base ai bilanci aziendali e agli interessi economici di pochi, non sono forse persone? I contadini africani e asiatici sradicati a migliaia dai loro piccoli poderi e sbattuti a vivacchiare di espedienti nelle megalopoli perché un fondo di investimento cinese o americano ha deciso che si deve tornare al latifondo, non sono persone pure loro? Non meriterebbero anche loro di decidere qualcosa, di essere protagonisti delle proprie vite? Forse c'è qualcuno che alza la mano e fa presente che si tratta di persone, nei grattacieli di vetro dove si fanno i conti e si decidono le vite degli altri, a migliaia di chilometri di distanza?
Se almeno il signor ArcelorMittal esistesse davvero, e Arcelor fosse il suo nome (detto Arci dagli amici), lo si potrebbe affrontare di persona, guardandolo negli occhi: ma nemmeno lui esiste. Non è una persona, è un Consiglio di amministrazione, è un apparecchio fatto di numeri, con sede in Lussemburgo e l'anima in nessun posto. Si dica dunque del capitalismo, di qui in poi, la stessa precisa cosa che si diceva del comunismo: un sistema freddo, anonimo, che tratta gli uomini freddamente, da anonimi.
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