Manduria siamo noi. Davvero? Ma quanto?
di Omar di Monopoli* *Scrittore (Il suo “Uomini e cani” è stato da poco ripubblicato da Adelphi; per le sue storie si è parlato di noir mediterraneo, western pugliese, neorealismo in versione splatter)
Svegliarsi di soprassalto a Manduria guatati dagli occhi di una feroce e inspiegabile fantasima che alleggia nell’aria; accendere la televisione e ritrovare nello schermo una galleria di scorci urbani noti, familiari, lingue di asfalto crepacciato battute quotidianamente, la sbilenca listellatura di una tapparella dirupata dalle intemperie, uguale a mille altre a queste latitudini, più e più volte sfilata al tuo fianco senza la menoma contezza di quanto dolore rattenesse, di quale irreparabile dramma tenesse lontano dalla tua vista.
Svegliarsi di soprassalto a Manduria e scoprirsi parte inconsapevole di una trama rivoltante eppure efficacissima, scritta per te e per migliaia di tuoi conterranei da un demiurgo misterioso, implacabile, che non si perita di ricorrere all’effettaccio per ricordarci quanto siamo fragili, insignificanti e spregevoli noi esseri umani.
Svegliarsi di soprassalto a Manduria in un giorno quieto di mezza primavera, col sole che sboccia tra i tetti grondando tuorlo tra nuvole di cartavelina, e venire risucchiati di colpo dall’orrore che bussa e palpita a pochi metri dalla tua casa, lo stesso che capolina sull’uscio di continuo, a cicli regolari: è il battito e la sinestesia di un Male sempre all’erta, mai domo, destro a concimare il loglio del suo prato. Come con la piccola Sarah, a pochi chilometri dal tuo giardino, o con l’efferato delitto di Giuse Dimitri, artista massacrato quaggiù in una notte di tregenda di non troppo tempo fa, da demoni con la faccia d’angelo non tanto dissimili da quelli che hanno fatto strame di ogni futuro del povero Antonio Stano, pensionato, single, afflitto da qualche turba psichica e, in definitiva, uomo.
Pure, ancora: svegliarsi di soprassalto a Manduria avviluppati dal ronzio costante e fastidioso degli odiatori da tastiera e sorprendersi incolpevolmente (davvero? ma quanto?) marchiati delle più spregevoli etichette: omertosi, incuranti, indifferenti, sordi al dolore altrui, merde.
“I manduriani non potevano non sapere” è il riff che riverbera a nastro per ore, giorni, ere interminabili sulle moltitudini di bacheche digitali degli analisti di professione, ingrossandosi come un soffocante nembo velenoso.
“I vicini non potevano non sapere” è la cantafera che si rimpalla la popolazione della stordita e incolpevole (davvero? ma quanto?) cittadina messapica per sgravarsi di ogni colpa.
“I genitori non potevano non sapere” è il carme intonato dagli abitanti della strada in cui il sangue è stato versato e che hanno assistito all’ignobile stillicidio di violenza senza vedere (davvero? ma quanto?).
“Come facevamo noialtri a sapere?” è infine la dubitativa retorica con cui chi ha procreato quei demoni chiude il cerchio della discolpa, allogando sé stessi assieme a tutti gli altri in quella zona di auto-assoluzione per la quale alla fine è sempre l’altro, ciò che è fuori da noi, a doversi fare carico di ogni responsabilità.
E intanto, mentre una comunità intera si ritrova attonita a confrontarsi tra gli anneriti coriandoli di un funesto carnevale, il lutto generale si consuma srotolandosi tra consuete marce di solidarietà e fiaccolate tardive, discussioni da bar e indici puntati, riflessioni antropologiche in odore di talk-show e funerali appartati in fuga dai teleobiettivi. Su tutto, il perenne brusio di sottofondo che sfuma nell’abbacinamento collettivo: davvero siamo noi, davvero siamo questo?
Ma “dietro a ogni scemo c’è un villaggio”, diceva una canzone nota, e oggi più che mai quel villaggio non può essere semplicemente racchiuso nei pur problematici confini di una sperduta (davvero? ma quanto?) cittadina di una regione, la Puglia, che sembra sempre a un passo dall’affrancamento definitivo dai cliché di un Sud barbarico e arretrato, e che invece puntualmente progredisce verso il domani con ostinato passo da gambero: ora avanzando in una luce numinosa (il turismo, la cultura, la gastronomia), ora piombando nella pece più nera (la criminalità, i veleni dell’Ilva, lo sfruttamento dei nuovi schiavi nei campi di raccolta).
Mai come in queste ore bisognerebbe invece sforzarsi di immaginarsi tutti come un unico grande villaggio in cui, per paradosso, siamo tutti Antonio Stano (davvero? ma quanto?), un popolo variamente disagiato, tenuto in scacco nelle nostre magioni da aguzzini dal volto angelicato, mostri che qualche volta, specchiandoci di sfuggita, rischieremmo di guardare dritti negli occhi.
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