sabato 28 gennaio 2023

Perfetto (al solito)

 

Begli amici
di Marco Travaglio
L’abbiamo scritto e detto non so quante volte ai governanti e ai media dominanti: attenzione, a furia di dissanguarci con le auto-sanzioni, con invii di armi sempre più potenti e costose, con spese militari sempre più imponenti mentre le bollette e l’inflazione si impennano e si taglia sul Welfare, sulla scuola, sulla sanità, persino sul Reddito di cittadinanza agli ultimi fra gli ultimi, con una retorica bellicista totalmente stonata rispetto al comune sentire di un popolo pacifico e in gran parte pacifista, finirete per danneggiare coloro che dite di voler aiutare. E cioè il popolo ucraino, principale vittima di questa guerra per procura fra Russia e Nato. Perché lo sdegno per gli orrori bellici non dura in eterno, ben presto finisce e sfinisce. E cede il passo all’assuefazione per la contabilità dei morti, dei feriti, dei profughi e delle devastazioni, che diventano aridi numeri senza più carne né sangue né cuore. Dài e dài, quel momento, terribile ma inevitabile, è arrivato. E toccherà l’acme con l’ospitata di Zelensky alla serata finale di Sanremo, da lui chiesta a Bruno Vespa e prontamente concessa da Amadeus (non si sa se perché è più furbo o è più fesso) e da quei geni che guidano la Rai. Qualcuno spegnerà la tv, qualcuno non l’accenderà neppure, qualcuno ne approfitterà per andare al bagno in attesa del vincitore, qualcun altro guarderà il presidente ucraino in t-shirt verdeoliva e si domanderà che diavolo ci faccia in quel contesto di sorrisi, canzoni e cazzoni, col terrore di vederselo spuntare l’indomani dall’oblò della lavatrice. Faceva quasi tenerezza l’altra sera il suo paraninfo Vespa che, affranto per l’ennesimo sondaggio sugli italiani contrari al riarmo dell’Italia e dell’Ucraina, domandava agli ospiti (tutti bellicisti, ci mancherebbe) perché il popolo bue si ostina a non capire quanto è bella la guerra, specie se atomica. E nessuno osava dirgli che gli basterebbe guardarsi allo specchio.
Poco dopo la Liberazione, Leo Longanesi progettava di fondare la sua casa editrice e, da gran conoscitore degli italiani, spiegò a Montanelli che si doveva partire con un’apologia di Mussolini: “Vedrai, da qui a tre mesi saremo sommersi di patacche sulla Resistenza. E da qui a un anno il pubblico comincerà, giustamente, a vomitarli. Voglio un’apologia del Duce coglione”. A furia di retorica resistenziale, spesso in bocca a chi era stato fascista fino al 24 luglio ’43 o addirittura al 24 aprile ’45, Longanesi sentiva avvicinarsi l’urlo Aridatece er Puzzone. Lo stesso effetto boomerang sortirà a lungo andare la petulante retorica zelenskiana, se i presunti amici degli ucraini non li aiuteranno a evitarla. Possibilmente prima che qualcuno organizzi una manifestazione per inviare le armi a Putin. E riempia la piazza.

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