Vent'anni dalla morte dell'Avvocato per antonomasia e il mondo platinato lo ricorda con immutata deferenza. Va da sé che Gianni Agnelli fu un abile condottiero industriale, con quella curiosità tipica degli uomini capaci di prendere decisioni immediate e sfuggevoli al contrasto d'opinione.
Ma, come tutti, aveva dei difetti, a volte giganti. Primo tra tutti la fredda e calcolata ostinazione a curare i propri interessi, a volte, anzi spesso, ricattando lo stato, come le innumerevoli volti in cui gettò sul tavolo l'ipotesi di grandi licenziamenti che avrebbero avuto conseguenze critiche per l'occupazione nazionale. Quante volte la Fiat ricorse alla cassa integrazione negli anni duri e a volte di piombo? Tante, troppe. L'Avvocato non corse mai il rischio che ogni buon imprenditore dovrebbe mettere in conto durante le proprie attività; ogni qualvolta vi fu un calo di produzione non seguì l'insegnamento di un grande imprenditore, Olivetti, non pagò quasi mai di tasca propria, ricorrendo frequentemente alla cassa integrazione. Quando decise di costruire un ulteriore impianto nel sud, lo stato contribuì enormemente all'edificazione di Termini Imerese.
Accatastò un enorme fortuna in gran parte nascosta all'estero, comprese le tonnellate di oro venute a galla grazie alla mai satolla figlia Margherita a cui i due miliardi e mezzo ricevuti in eredità (estikazzi) sembrano non bastare.
Fu insomma un devastante accentratore di risorse che, solo grazie alla piaggeria nostrana, mai scomparsa, lo portarono a divenir emblema e simbolo della rinascita italiana.
Conobbe potenti e ebbe una vita da eccelso latin lover, grazie e soprattutto per la sguaiata ricchezza ottenuta sulla pelle di milioni di lavoratori, da un lato riconoscenti per la fuga dalla povertà, dall'altra impelagati oltremodo in quella subdola forma di schiavismo autorizzato da quella grande idea di capitalismo, a detta di pochi, faro dell'umanità.
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