lunedì 6 giugno 2022

Pace nell'arte

 


Pace o vittoria? Ecco cosa ci insegna la storia dell’Arte
LE DUE STAMPE DEL XVI SECOLO - Un conto è dire pace: altro conto è vedere la Pace che brucia le armi. Un conto è esaltare la vittoria: altro conto è vedere la Vittoria con le mani insanguinate
DI TOMASO MONTANARI
Vittoria o pace? Dopo oltre cento giorni di guerra appare sempre più chiaro che si tratta di un bivio, un’alternativa: l’Occidente deve decidere cosa vuole, in Ucraina. Perché le strade per ottenere l’una sono remotissime da quelle che servono per ottenere l’altra. Che il presidente Zelensky continui a ripetere ai suoi concittadini che l’obiettivo è la vittoria è perfettamente comprensibile. Molto meno che lo facciano i leader dell’Unione Europea. Venerdì scorso Amin Awad, coordinatore Onu per la crisi in Ucraina, ha dichiarato con molta maggior lucidità che questa guerra “non avrà un vincitore. Invece abbiamo visto – ha aggiunto – per cento giorni cosa è stato perduto: vite, case posti di lavoro e prospettive”.
Non è certo la prima volta che ci si trova a dover scegliere tra una possibile vittoria e una raggiungibile pace. Una ricchissima iconografia, lunga quanto la storia dell’arte, ci racconta come esse siano state rappresentate in immagine: allegorie femminili capaci di insegnare, dare piacere, incitare all’azione. Ne ho scelte due, pubblicate a stampa (il mezzo di diffusione più universale e veloce) negli stessi mesi, alla metà del Cinquecento, questo secolo bello quanto feroce.
La Pace è quella del frontespizio dell’Extraordinario libro di architettura dell’italiano Sebastiano Serlio (1551), cioè il supplemento al campionario di invenzioni architettoniche più fortunato del secolo. La pace come premessa indispensabile all’architettura: cioè all’edificazione della civiltà stessa. La figura ha in mano un ramo d’ulivo, perché il suo frutto c’è “in abondanza solo dove la pace reca agli huomini commodità di coltivar la terra, la quale per la guerra rimane infeconda, et disutile” (così il repertorio iconografico di Cesare Ripa, di poco successivo): una circostanza puntualmente verificatasi anche in questa guerra “moderna”. Ma l’ulivo ha anche un altro, più sottile, significato: “Presso agli ebrei nella vecchia Legge, fra le altri cagioni si ungevano i Re, che erano eletti pacificamente, acciò che si ricordassero di vivere in pace et in quiete, questa stimando la maggior lode, che si potesse avere a’ quei tempi, secondo il detto Rex pacificus magnificatus est”.
Il nesso simbolico ulivo-pace nasce, ovviamente, dalla pagina della Genesi in cui una colomba torna all’arca di Noè con un suo ramoscello in bocca, dimostrando che l’acqua si sta ritirando lasciando riapparire gli alberi, e che dunque Dio ha fatto pace con il genere umano. Di qua l’idea che i re si ungessero perché rimanessero costruttori di pace: esattamente quello che i nostri presidenti e capi di governo hanno dimenticato.
Con l’altra mano, poi, la Pace incendia un cumulo d’armi: “Et la facella, che abbrugia il Monte d’armi significa l’amore universale e scambievole fraa i popoli, che abbrugia, & consuma tutte le reliquie de gli odij, che sogliono rimaner dopo la morte de gli huomini”.
Bruciare le armi per evitare che la guerra continui, di generazione in generazione: esattamente il contrario di quel che pensiamo oggi, quando crediamo che la moltiplicazione degli armamenti sia l’unica condizione per mantenere la pace.
La stampa con la Vittoria (del 1552), invece, è opera del pittore di Anversa Frans Floris, e fu ispirata dai recenti trionfi dell’imperatore Carlo V sui turchi. Con una libertà che solo agli artisti è concessa, Floris ci mostra la Vittoria per quel che davvero è: una dea guerriera, che allarga mani che letteralmente grondano sangue. Una prospettiva impietosa la schiaccia di fronte al campo di battaglia, tutto pieno di armi: non bruciate, ma usate a più non posso. Come una sorta di Cristo giudice michelangiolesco, ma impietoso e disumano, la Vittoria si staglia su un cumulo di corpi: ha alla sua destra un mucchio di cadaveri, e alla sua sinistra prigionieri in catene. Niente di trionfale, ottimistico, roseo: la Vittoria non è vista in rapporto al futuro, ma al passato immediato, cioè a ciò che ha comportato il poterla conseguire. E cioè una carneficina di corpi e di vite: un massacro, una strage, una terribile sciagura.
Gli artisti sapevano bene che un conto è dire, o scrivere, un concetto, e un conto è rappresentarlo per immagini: cambia tutto anche se il concetto è lo stesso. Un conto è dire pace: altro conto è vedere la Pace che brucia le armi. Un conto è esaltare la vittoria: altro conto è vedere la Vittoria con le mani che gocciolano sangue umano, in mezzo a un’ecatombe. Nella domenica delle Palme, cioè nella domenica in cui si fa memoria della Passione di Cristo, papa Francesco si chiese: “Che vittoria sarà quella che pianterà una bandiera su un cumulo di macerie?”. È quello che si chiede chi vuol fermare la guerra mostruosa di Putin, ma senza scatenarne una ancora più grande e terribile. La saggezza delle vecchie immagini di un continente condannato da millenni alla guerra può forse ancora ispirarci: per voltare pagina, una volta per tutte.

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