mercoledì 15 maggio 2019

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Datemi un sequel
La fine di una serie tv è il nuovo trauma del consumatore globale. Perché l’amore può morire, ma “Il Trono di spade” no

Stefano Massini

Agli svariati traumi della nostra società se n’è aggiunto ormai da tempo uno devastante: il lutto ferale da ultima puntata. Come sopravvivere senza Trono di Spade e compagnia bella, quando il sipario scorre implacabile? Il fatto è che abbiamo maturato una specie di insofferenza acuta per i commiati narrativi, non accettiamo l’idea che il flusso di una storia si interrompa, lasciandoci in qualche modo orfani. Credo faccia parte di quel complesso meccanismo di rimozione che esercitiamo nei confronti della morte, e che mi riporta alla memoria quel non conclude con cui Pirandello coronava il suo romanzo. Ecco: vorremmo che niente concludesse. E la conseguenza è sotto gli occhi di tutti: dalle carriere politiche a quelle dei calciatori (passando per gli addii di note band puntualmente sconfessati con la reunion), tutto quanto sembra ormai intonato a un’eterna continua resurrezione, e dovunque svolazzano arabe fenici autoriesumate dalle proprie ceneri.
Appunto: non conclude . La regola è che ogni the end contenga già un the begin , tanto più se si tratta di storie monumentali, di cui ci siamo talmente infatuati da concepirle non come fiction, ma come realtà alternative, non di personaggi ma di entità anagrafiche, biologiche, dotate di un’esistenza autonoma. Guai a interrompere. Il mercato hollywoodiano se n’è reso conto da anni, lanciandosi più che mai in un’infilata di sequel, prequel e spin-off, dai plurimi Tolkien di Peter Jackson al proliferare di Avengers e Star Wars , cosicché il biblico “crescete e moltiplicatevi” si è mutato in “finite e ricominciatevi”. Mi si dirà che è un déjà-vu , trattandosi in fondo dello stesso trucco cui ricorreva l’epica omerica, sviluppando all’infinito trame e sottotrame della madre di tutte le serie, GOT: Game of Troia . Certo. Ma si dà il caso che nei secoli a venire i massimi capolavori della letteratura non prevedessero alcun ritorno dopo la fatidica parola “fine”, non c’erano in panchina figli segreti di Achab pronti a dar la caccia alla nipotina di Moby Dick, in un susseguirsi di sequel che poteva giungere comodamente fino allo scontro fra balenieri e Greenpeace.
E dunque come avranno fatto a sopravvivere, prima dei fratelli Lumière, quei milioni di sventurati la cui immaginazione si cibava di poemi e di romanzi? Semplicemente: si trattava di una splendida staffetta fra la fantasia dello scrittore e quella del lettore, per cui dopo l’ultima sillaba personaggi e situazioni passavano in eredità alla libera creazione di chi li aveva amati. «Tutto il resto è silenzio» mormora Amleto nell’ultima puntata – pardon: ultimo atto – della sua tragedia, ed era una battuta a mio vedere magnifica, perché implica il passaggio di consegne fra le parole di Shakespeare e il silenzio apparente in cui ognuno di noi potrà immaginare il proprio seguito alla vicenda: cosa accadde, dopo, a Elsinor? Forse Orazio eresse un mausoleo all’amico morto, fondando nella reggia un grande teatro. Oppure fu lo stesso Amleto a ripresentarsi in giro in vesti di spettro, imitando suo padre… Il gioco dei possibili sequel sarebbe oltremodo creativo, oltre che divertente, e potrebbe rivelarsi un brillante metodo scolastico: come se la cavò Pinocchio divenuto bambino vero? Aprì una segheria? Si tinse i capelli di turchese, come un punk, in memoria della sua Fatina? Ognuno di voi è padrone di sceneggiare, assemblare, tradire, con una libertà di manovra che oggi suona tuttavia inconcepibile: siamo talmente abituati a ricevere passivamente che il tacere dell’autore equivale ormai all’oblio, e subito pretendiamo ulteriori nuovi prodotti dall’industria a ciclo continuo della fiction. È l’era del consumismo narrativo, a cui chiediamo non solo di sfornare novità succulente, ma anche di spremere fino all’osso i filoni aurei della miniera, alimentando l’effetto distorto di una storia inesauribile. È facile allora ipotizzare che a Dante Alighieri sarebbe stato chiesto, dopo Inferno-Purgatorio- Paradiso , di farsi un tour pure nel Walhalla, mentre al Manzoni la piattaforma Netflix avrebbe già commissionato un triplo sequel con le infedeltà coniugali deiPromessi Sposi , nonché uno spin-off con gli amorazzi giovanili di Perpetua.
Inutile rilevare come i personaggi siano materia sensibile, delicatissima, il cui eccessivo sfruttamento degenera nel deteriore, fra Lucia Mondella che si dà al buddismo e Renzo Tramaglino con la crisi di mezza età. Il punto – mi permetto di azzardare – è che nessuno si è mai eretto a difensore dei diritti dell’umanità fantastica: i personaggi inventati, esattamente come le persone reali, esigono di esser trattati con un minimo di etico rispetto, di cui è ingrediente essenziale l’accettarne la morte, senza accanimenti terapeutici. Cominciamo a metterci in testa che le storie debbono avere necessariamente un crepuscolo, e che anzi è proprio la loro caducità a renderle preziose, materiale finalmente umano, fragilissimo, privo di quell’eternità artificiale che sarà semmai attributo degli automi, dei cloni, dei replicanti. Ben venga, allora, la drastica schermata nera che significa that’s all, folks , senza possibilità di appello.
E se staccarci da un personaggio ci farà versare una lacrima, sarà segno che la sua storia ha avuto un senso, e ne serberemo memoria. Insomma, che ci piaccia o no, l’addio fa parte integrante del vocabolario umano, e chi si illude di dir solo arrivederci è condannato a un’esistenza di plastica. Questo è tutto, ho finito. Titoli di coda.


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