Datemi
un sequel
La fine di una serie tv è il nuovo trauma del
consumatore globale. Perché l’amore può morire, ma “Il Trono di spade” no
Stefano Massini
Agli svariati traumi della nostra società se n’è aggiunto ormai da tempo
uno devastante: il lutto ferale da ultima puntata. Come sopravvivere
senza Trono di Spade e compagnia bella, quando il sipario scorre
implacabile? Il fatto è che abbiamo maturato una specie di insofferenza acuta
per i commiati narrativi, non accettiamo l’idea che il flusso di una storia si
interrompa, lasciandoci in qualche modo orfani. Credo faccia parte di quel
complesso meccanismo di rimozione che esercitiamo nei confronti della morte, e
che mi riporta alla memoria quel non conclude con cui Pirandello
coronava il suo romanzo. Ecco: vorremmo che niente concludesse. E la
conseguenza è sotto gli occhi di tutti: dalle carriere politiche a quelle dei
calciatori (passando per gli addii di note band puntualmente sconfessati con la
reunion), tutto quanto sembra ormai intonato a un’eterna continua resurrezione,
e dovunque svolazzano arabe fenici autoriesumate dalle proprie ceneri.
Appunto: non conclude . La regola è che ogni the
end contenga già un the begin , tanto più se si tratta di storie
monumentali, di cui ci siamo talmente infatuati da concepirle non come fiction,
ma come realtà alternative, non di personaggi ma di entità anagrafiche,
biologiche, dotate di un’esistenza autonoma. Guai a interrompere. Il mercato
hollywoodiano se n’è reso conto da anni, lanciandosi più che mai in un’infilata
di sequel, prequel e spin-off, dai plurimi Tolkien di Peter Jackson al
proliferare di Avengers e Star Wars , cosicché il biblico “crescete
e moltiplicatevi” si è mutato in “finite e ricominciatevi”. Mi si dirà che è
un déjà-vu , trattandosi in fondo dello stesso trucco cui ricorreva
l’epica omerica, sviluppando all’infinito trame e sottotrame della madre di
tutte le serie, GOT: Game of Troia . Certo. Ma si dà il caso che nei
secoli a venire i massimi capolavori della letteratura non prevedessero alcun
ritorno dopo la fatidica parola “fine”, non c’erano in panchina figli segreti
di Achab pronti a dar la caccia alla nipotina di Moby Dick, in un susseguirsi di
sequel che poteva giungere comodamente fino allo scontro fra balenieri e
Greenpeace.
E dunque come avranno fatto a sopravvivere, prima dei fratelli Lumière,
quei milioni di sventurati la cui immaginazione si cibava di poemi e di
romanzi? Semplicemente: si trattava di una splendida staffetta fra la fantasia
dello scrittore e quella del lettore, per cui dopo l’ultima sillaba
personaggi e situazioni passavano in eredità alla libera creazione di chi li
aveva amati. «Tutto il resto è silenzio» mormora Amleto nell’ultima puntata –
pardon: ultimo atto – della sua tragedia, ed era una battuta a mio vedere
magnifica, perché implica il passaggio di consegne fra le parole di
Shakespeare e il silenzio apparente in cui ognuno di noi potrà immaginare il
proprio seguito alla vicenda: cosa accadde, dopo, a Elsinor? Forse Orazio
eresse un mausoleo all’amico morto, fondando nella reggia un grande teatro.
Oppure fu lo stesso Amleto a ripresentarsi in giro in vesti di
spettro, imitando suo padre… Il gioco dei possibili sequel sarebbe
oltremodo creativo, oltre che divertente, e potrebbe rivelarsi un brillante
metodo scolastico: come se la cavò Pinocchio divenuto bambino vero? Aprì una
segheria? Si tinse i capelli di turchese, come un punk, in memoria della sua
Fatina? Ognuno di voi è padrone di sceneggiare, assemblare, tradire, con una
libertà di manovra che oggi suona tuttavia inconcepibile: siamo talmente
abituati a ricevere passivamente che il tacere dell’autore equivale ormai
all’oblio, e subito pretendiamo ulteriori nuovi prodotti dall’industria a ciclo
continuo della fiction. È l’era del consumismo narrativo, a cui chiediamo non
solo di sfornare novità succulente, ma anche di spremere fino all’osso i filoni
aurei della miniera, alimentando l’effetto distorto di una storia inesauribile.
È facile allora ipotizzare che a Dante Alighieri sarebbe stato chiesto,
dopo Inferno-Purgatorio- Paradiso , di farsi un tour pure nel
Walhalla, mentre al Manzoni la piattaforma Netflix avrebbe già
commissionato un triplo sequel con le infedeltà coniugali deiPromessi Sposi
, nonché uno spin-off con gli amorazzi giovanili di Perpetua.
Inutile rilevare come i personaggi siano materia sensibile, delicatissima,
il cui eccessivo sfruttamento degenera nel deteriore, fra Lucia Mondella che si
dà al buddismo e Renzo Tramaglino con la crisi di mezza età. Il punto – mi
permetto di azzardare – è che nessuno si è mai eretto a difensore dei diritti
dell’umanità fantastica: i personaggi inventati, esattamente come le persone
reali, esigono di esser trattati con un minimo di etico rispetto, di cui è
ingrediente essenziale l’accettarne la morte, senza accanimenti terapeutici.
Cominciamo a metterci in testa che le storie debbono avere necessariamente un
crepuscolo, e che anzi è proprio la loro caducità a renderle preziose,
materiale finalmente umano, fragilissimo, privo di quell’eternità artificiale
che sarà semmai attributo degli automi, dei cloni, dei replicanti. Ben venga,
allora, la drastica schermata nera che significa that’s all, folks
, senza possibilità di appello.
E se staccarci da un personaggio ci farà versare una lacrima, sarà segno
che la sua storia ha avuto un senso, e ne serberemo memoria. Insomma, che ci
piaccia o no, l’addio fa parte integrante del vocabolario umano, e chi si
illude di dir solo arrivederci è condannato a un’esistenza di plastica. Questo
è tutto, ho finito. Titoli di coda.
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