La meritocrazia è un totem che colpevolizza la povertà
LA LEZIONE DI DON TONINO BELLO - Il vescovo vedeva il culto del successo come il motore morale di una economia mostruosa, che degrada a sottouomo chi non ce la fa
DI TOMASO MONTANARI
Ogni giorno sembra conoscere un record di abissale disumanità: leggi mostruose minacciano di chiudere i più poveri, quelli che non possono pagare il riscatto, in campi di concentramento, violandone il corpo per accertarne l’età. Non sia mai che un diciottenne in fuga dalla guerra o dalla fame ci raggiri per potersi salvare.
Perché non ci ribelliamo? È una discesa agli inferi che ci riguarda: oggi come complici muti dei nostri governanti eletti, domani come vittime delle pratiche biopolitiche sperimentate sui corpi di serie b. Questo, in fondo, il messaggio: i neri, i migranti, i pezzenti non sono proprio come noi. Sono di meno. A loro si può fare ciò che mai faremmo a “quelli come noi”. Cosa ci è successo, dunque? Come siamo arrivati fin qui?
Una parte della risposta si trova nei cosiddetti “valori” che governano la nostra società: la società della meritocrazia, del successo “meritato”, del “si salvi chi può” (chi può economicamente, sia chiaro). La società del sorpasso. È la formula che campeggia nel bel libro che Enrico Mauro ha dedicato alle idee e alle parole di Tonino Bello (Contro la società del sorpasso. Il pensiero antimeritocratico di don Tonino Bello, San Paolo 2023, 16 euro). Antonio Bello (1935-1993) è stato vescovo di Molfetta, e papa Francesco lo ha dichiarato venerabile, un primo passo nel processo di canonizzazione: a lui apparteneva la voce più radicale e profetica dell’episcopato italiano del secondo Novecento, una voce che solo in quella di don Lorenzo Milani trova forse un adeguato termine di paragone.
Enrico Mauro è un ricercatore di diritto amministrativo, ed è un laico: il suo interesse per la figura di don Tonino (oltre che in alcuni nessi del tutto personali) sta nella frase di Martin Luther King che scelto per aprire il libro: “Se una religione dichiara di preoccuparsi dell’anima degli uomini senza manifestare altrettanta preoccupazione per i quartieri degradati che li portano alla dannazione, per le condizioni economiche che li strangolano, per le condizioni sociali che li paralizzano, quella religione è spiritualmente moribonda, e aspetta soltanto la sepoltura”. Da laico, e soprattutto da essere umano che la vita ha condotto a misurarsi fino in fondo con la profondità dolente della propria umanità, Mauro cerca (e trova) nelle parole di Tonino Bello una visione del mondo e dei rapporti umani spiritualmente viva. Anzi, rivoluzionaria.
Il radicalismo evangelico di don Tonino – che poi significa semplicemente la sua disposizione a fare proprie le idee e le parole del Cristo – ha saputo smontare, demistificare, denunciare l’atroce logica del successo che fonda la nostra società. In uno dei suoi scritti più mirabili, la lettera di auguri alla diocesi per il Natale del 1985 (in piena “Italia da bere” craxiana), scrive: “Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso […] progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo […] strumento delle vostre scalate”. Come commenta Mauro, “non esattamente le parole che ci si immagina di ascoltare andando in chiesa a Natale, prima di abbuffarsi”. Ma don Tonino sapeva che proprio questo, il successo, era il nuovo idolo: “La carriera. Questa spregiudicata professione dell’arrivismo per cui ogni soldato francese, come amava dire Napoleone, porta nella sua giberna il bastone di maresciallo di Francia. La carriera. Questa viscida idolatria degli arrampicatori sociali, dinanzi al cui altare tanta gente offre olocausti”.
Il vescovo vedeva che il culto del successo era il motore morale di una economia mostruosa, che degrada i poveri, coloro che non ce la fanno, riducendoli a sottouomini: “L’economia disumana, l’esasperazione dei parametri economici ridotti a criterio supremo dell’umana convivenza, le logiche di guerra [che] dai campi di battaglia hanno traslocato sui tavoli di un’economia che penalizza i poveri, il dominio assoluto della logica del profitto [che] è la vera causa dei gravi squilibri del mondo contemporaneo, […] che partorisce l’esodo di milioni di ‘dannati della terra’ verso le nostre società opulente”.
Come ben vede Enrico Mauro, una “conseguenza della cosiddetta ‘meritocrazia’ è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura. Ma non è la logica del Vangelo, non è la logica della vita”.
La logica del Vangelo: quella cui don Tonino ha dedicato intere la sua vita e la sua intelligenza. Quella che pare mancare del tutto a chi dice di voler difendere Dio (!), mentre spoglia i più poveri (cioè proprio quelli in cui Dio ha detto che sarebbe tornato a noi) di ogni umana dignità. Quasi che il nostro vero, collettivo, successo – il nostro sorpasso – fosse esser nati bianchi e cristiani, qualche chilometro più a nord.
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