Resistenza è leggere libri infiniti
di Melania Mazzucco
I libri ci assomigliano.
Sono oggetti (forse addirittura creature) fragili, soggetti all'usura, vulnerabili all'acqua, al fuoco, agli insetti, alle malattie – e tuttavia persistenti e tenaci.
Sono mortali, e il loro ciclo vitale ripete quello delle piante – riposano, fioriscono, resistono, fruttificano, si rigenerano.
La loro esistenza ci accompagna durante la nostra: è silenziosa, ma emette un permanente brusio.
Li perdiamo di vista, ma possiamo ritrovarli, perfino molti anni dopo, come amici e fratelli.
Durare è la loro azione. Nel tempo, nella storia collettiva, nella memoria individuale.
Per questo, dopo mezzo secolo di appassionate letture, realizzo che i libri che hanno davvero contato, e tuttora contano, per me, sono quelli che mi hanno scortato a lungo, nei quali ho abitato come in uno spazio tanto fantastico e immaginario (che mi liberava e salvava dalle angustie del mio), quanto concreto e reale (una casa nella quale tornare, perché vi ero attesa).
L'attraversamento e la percorrenza di questi libri lunghi inevitabilmente e inestricabilmente salda il loro tempo al mio.
Ciò accade, per gli altri ricordi, solo per le catastrofi.
Tutti ricordiamo dove eravamo quando sono cadute le Torri gemelle di New York, così come altre generazioni ricordavano dov'erano l'8 settembre 1943 o il giorno di un'alluvione o del terremoto.
E io ricordo ancora dov'ero mentre nel 1979 leggevo Anna Karenina (sul sedile posteriore della Renault che mio padre guidava verso le vacanze in montagna, e poi, per settimane, nei prati delle Alpi), o V. di Thomas Pynchon (in treno, nelle tappe insonni dell'Interrail), o Notre-Dame de Paris di Victor Hugo (nelle aule studio del Centro sperimentale, fra una lezione e l'altra).
I personaggi, i luoghi, certe scene, e perfino alcune parole scoperte in quelle pagine per la prima volta, sono indelebili – vividi e pulsanti, come li avessi adesso sotto gli occhi.
Molti degli altri libri si sono invece smarriti – evaporati da me, lasciando nel setaccio della memoria appena un sedimento di sabbia.
Incontrandoli nella mia biblioteca, vellutati da una nera patina di polvere, mi chiedo perfino se io li abbia letti davvero – e solo un fiore secco, un biglietto, qualche orecchia, sottolineatura o scarabocchio che li sfigura me lo conferma.
«Non ho tempo» è il pretesto accampato oggi dai più per ammettere di leggere meno, o poco.
Il futurismo non è l'avanguardia estetica che gode di maggior prestigio culturale, ma ha lasciato l'eredità più duratura: il culto nefasto della velocità, che il trionfo di Internet ha inverato.
Però il tempo che un libro lungo, o interminabile, esige da noi, non è un tempo perduto, rubato o sottratto alla vita, ma aggiunto e moltiplicato.
Per questo la mia gratitudine di lettrice oggi va ai romanzieri (e a qualche saggista, penso a Johan Huizinga, Lev Trotzkij o Simon Schama), che mi hanno regalato un mondo.
Proust è l'esempio topico, e una sorta di pietra d'inciampo.
Citato e banalizzato quasi unicamente in relazione alle mille e più pagine della Recherche.
Ma anche l'Ulisse di Joyce, La montagna incantata (o magica) di Mann, I sonnambuli di Broch, o L’uomo senza qualità di Musil.
Leggere fino in fondo quei monumentali volumi – peraltro composti in asincrono, negli anni ruggenti del XX secolo, ritmati dalla brevità jazz – è come arrampicarsi su un sentiero impervio, talvolta scivoloso: ma comprendiamo fin dai primi capitoli che in cima godremo di un panorama ineguagliabile – e resistiamo alla fatica, persino alla noia.
Tuttavia più amichevoli risultano i classici francesi, inglesi e russi dell'Ottocento (Hugo, Balzac, Dumas, Dickens, Tolstoj, Dostoevskij) e del Novecento (Pasternak, Tynjanov, Pilnjak, Grossman, Šalamov, Solgenitzin, Tolkien, Céline, de Beauvoir).
La dismisura avvicina ciò che è distante: i postmoderni americani e non (Foster Wallace, Vollmann, Perec, Bolaño) e i narratori sud e centroamericani (García Márquez, Vargas Llosa, Cortázar, Fuentes, Galeano).
Il catalogo spesso trascura gli italiani, svantaggiati dall'equivoco critico che ci vuole piuttosto novellieri o versati nella brevità, e poi irretiti dalle lezioni (spesso fraintese) di Calvino su leggerezza e concisione.
Ma almeno Ippolito Nievo, Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli e Il male oscuro di Giuseppe Berto figurano nello scaffale.
Invece le scrittrici (da Bellonci, Banti e de Céspedes, a Morante e Ferrante), favorite dalla loro lateralità, hanno ignorato, e ignorano, la prescrizione e il tabù.
La sfida della lunga durata è stata del resto raccolta e vinta dai contemporanei:
lo dimostrano non solo i successi popolari delle saghe fantasy, di Donna Tartt, Hanya Yanagihara e Nino Haratischwili, ma anche romanzi estremi – storici, epici e labirintici – come L’uomo che amava i cani del cubano Leonardo Padura Fuentes, I libri di Jakub di Olga Tokarczuk, o Theodorus del romeno Mircea Cărtărescu.
La misura del racconto non è questione di genere, storia letteraria e tradizione, ma di respiro e di coraggio.
Solo un libro lungo ti permette di abbandonarti al flusso ipnotico della lingua, e di lasciarti trasportare dalla corrente del racconto come dalla musica.
Solo un libro lungo genera la gioia frizzante di avere un appuntamento – con pazienza e umiltà, ti attende sul comodino, in poltrona, in borsa, ovunque.
E via via alimenta la malinconia dell'imminente congedo.
Di solito, quando il peso del tomo si sposta sul lato sinistro, rallentiamo la lettura: le pagine mancanti si assottigliano, e siamo consapevoli che finirlo sarà comunque un addio.
Non vogliamo essere espulsi dal mondo nel quale il narratore ci ha invitato, e accolto, ma restarci dentro – perché è diventato anche il nostro.
C'è qualcosa di primordiale nell'avventura della lettura.
Ci riporta al cerchio intorno al fuoco nelle notti infinite dei nostri progenitori, quando la scrittura neppure era stata inventata, ma esistevano già l'incanto della parola e del racconto.
Serve la luce per leggere, ma anche il bianco da cui emergono le righe emana chiarore, come quelle fiamme ancestrali.
Pure le pagine di carta del resto "crepitano".
Il tempo di leggere è sempre un tempo ritrovato.
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