Perché si chiama Liberazione
DI MICHELE SERRA
Il bel discorso di Mattarella a Cuneo potrebbe sembrare scritto con una certa malizia politica: diversi passaggi (per esempio la menzione delle “avventure imperiali nel Corno d’Africa”) sembrano concepiti come precise repliche a manipolazioni e omissioni dell’attuale personale di governo. Nel caso in questione, al silenzio della premier Meloni, in occasione del recente viaggio in Etiopia, sull’occupazione italiana e i conseguenti misfatti contro le popolazioni indigene – vedi i crimini di guerra di Rodolfo Graziani: bel farabutto al quale alcuni nostri contemporanei hanno pensato di dedicare un sacrario.
In realtà Mattarella ha semplicemente rimesso in ordine, con l’autorità che gli compete, i fondamenti della Repubblica e quelli – coincidenti – dell’antifascismo.
Accompagnandoli con una ricostruzione storica - a partire dal numero dei partigiani caduti, ovvero dalla consistenza popolare e patriottica della Resistenza – che impedisce qualunque tentativo di rimozione o ridimensionamento della vittoria degli antifascisti sui fascisti: fu una guerra di Liberazione, non altro, e il 25 aprile è la data simbolica nella quale ci ricordiamo che fummo sotto una dittatura che aveva “il mito della violenza e della guerra” (Mattarella), e ce ne siamo liberati.
Non è dunque il Quirinale che ha “risposto” agli italiani eredi della memoria fascista (hanno la fiamma nel simbolo). Sono loro che manifestano, per logico sbocco del loro sentire, la loro estraneità all’architettura del Palazzo del quale oggi reggono le sorti. Come ne usciremo non si sa, ma la riduzione a unità di una così clamorosa frattura sembra difficile e distante.
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